Le playlist degli anni Settanta – Il Padrino torna nelle sale cinquant’anni dopo

Non so se nella prima metà degli anni Settanta esistessero già le autoradio.  Quello che so è che noi non la avevamo.

Avevamo però un registratore portatile della Sanyo, piccolo, con un potente altoparlante, anche se compatto, con la sua elegante custodia in similpelle bucherellata. Alle nostre orecchie ancora non stuzzicate da Hi-Fi e stereofonia, ci sembrava suonasse benissimo. Aveva anche un microfono a filo di buonissima qualità (sempre secondo gli standard del tempo), con il quale registravamo in presa diretta dalla tv, o dal giradischi, osservando, ovviamente, un rigorosissimo silenzio. 

Le nostre playlist allora nascevano così.

Registravamo le sigle degli sceneggiati che ci piacevano. 

Una domenica pomeriggio, durante la registrazione della sigla di Scaramouche, con Domenico Modugno, “Come è bella l’avventura!”, a casa di mia nonna, non so cosa toccai inavvertitamente, ma partì una fiammata dalla spina e dalla presa cui era collegato il registratore che bruciò le pareti della casa e lasciò senza luce i miei nonni fino ad intervento tecnico qualificato.

Oltre alle sigle, registravamo i nostri dischi a 45 giri, secondo l’ordine preferito di mio padre. Poiché la sequenzialità del nastro su cui registravamo rendeva difficoltoso ed impreciso usare rewind e play per risentire le canzoni che ci piacevano di più, mio padre si prefigurava questo gradimento e disponeva la registrazione ripetuta due o tre volte consecutive, dei brani più gettonati. 

Caratteristica distintiva delle nostre playlist su musicassette c60, o più spesso c90, erano queste ripetizioni apparentemente casuali di alcuni brani.

Per i dischi che non avevamo facevamo ricorso ai miei cugini Lorella e Riccardo, loro sicuramente li avrebbero avuti. 

Quando andavamo in gita da loro la domenica, una parte del tempo era dedicato alla sessione di registrazione nella stanza che aveva la poltrona letto di pelle uguale a quella dove dormivo io a casa mia. Scelti i dischi, scelte le eventuali ripetizioni, silenzio assoluto, mio padre avvicinava il microfono all’altoparlante del giradischi, e si creava la nuova playlist.

Quando eravamo in macchina il mio compito era quello di inserire la cassetta nel registratore e tenerlo abbastanza alto tra mio padre e mia madre per diffondere le nostre canzoni preferite durante il viaggio, e, spesso cantarci appresso o sopra. “Sento la nostalgia di un passato…Romagna mia, con Raul Casadei era una di quelle ripetute tre volte.

Insomma non compravamo le cassette originali, avevamo quelle registrate dai dischi o dalla tv, ci bastavano.

Solo in due occasioni questo comandamento fu disatteso: la registrazione del concerto di rientro di Renato Carosone, dalla Bussola di Bernardini nell’estate del 1975. Ma ancora prima e, soprattutto, la colonna sonora del film Il Padrino, anche se la cassetta di un acceso celeste raffigurava su fondo nero la nota mano bianca stilizzata che manovrava un invisibile pupo, con la scritta The Godfather, che nessuno di noi sapeva esattamente cosa significasse.

in quel 1972 per molti tragitti in auto nessuna playlist potè scalzare la colonna sonora di Nino Rota elaborata per Francis Ford Coppola per quel capolavoro cinematografico assoluto, che veniva ripetuta tutta consecutivamente almeno tre volte.

Ricordo di averlo visto al cinema nel 1972, anche se ancora bambino. Ricordo che il film mi piacque subito, che amai molte scene di quel film. Ricordo che tutti i bambini mi chiedevano curiosi e spaventati della famosa scena della testa di cavallo mozzata. 

Ovviamente mi affascinarono le musiche, oggi ormai notissime, di quel film. Si rifletteva su di me anche il grande piacere che avevano provato i miei genitori nel vederlo (e nel ricordarlo attraverso le musiche). Mio padre lo definì subito un filmone, che nella sua graduatoria senza stelline era il massimo livello, solo eguagliabile, non superabile.

Cinquanta anni dopo il film torna restaurato nelle sale cinematografiche e noi lo abbiamo rivisto.

Anche se lo abbiamo in questi anni visto e rivisto tante volte, rivedendolo dopo cinquanta anni, nel buio e nella concentrazione della sala cinematografica, si conferma l’altissima qualità dell’opera. Anche se super auto spoilerato, conserva la capacità di tenere incollati allo schermo a seguire l’evoluzione di Michael, la sua formazione di Boss, e le vicende di tutta la famiglia.

Un cast stellare per ogni anche più piccola parte, una sceneggiatura serrata e avvincente, fotografia profonda e avvolgente, una produzione di altissimo livello, una confezione sartoriale di prim’ordine, colonna sonora indimenticabile, appunto.

Il film è stato pluripremiato. Marlon Brando conquistò l’Oscar (che fece ritirare per protesta ad una squaw cheyenne, così andava il mondo allora).

L’American Film Institute lo ha consacrato come secondo miglior film americano di tutti i tempi.

Il Padrino è stato ispirato da un romanzo di Mario Puzo, che ha scritto la sceneggiatura del film, e che è valsa anche a lui l’Oscar. 

Mio papà aveva letto il romanzo, che contiene anche le vicende narrate dal seguito, Il Padrino parte II, che vede Robert De Niro, giovane Vito Corleone.

Lo aveva letto prima di vedere il film ed era particolarmente colpito dalla resa sullo schermo. Mi convinse a leggerlo anch’io, dopo il film ovviamente, e lo trovai particolarmente avvincente, mi piacque molto.

Di Mario Puzo, papà, mi fece leggere anche Mamma Lucia, (come la mamma di Compare Turiddu nella Cavalleria Rusticana, ma storia assolutamente diversa). Ricordo che questo romanzo mi parve ancora più bello. La vicenda al femminile consentiva a Puzo una delicatezza nella narrazione, una compiutezza non solo fatta di maschi alfa, che mi appassionò ancora di più.

A Mamma Lucia si ispirò il Maestro Pippo Caruso (D’artagnan, per chi si ricorda i suoi baffi) per scrivere la sigla di apertura delle trasmissioni televisive della tv privata Antenna Sicilia, a cui era interessato il suo amico Pippo Baudo (tre volte consecutive anche questa nelle playlist di mio padre).

La potete ascoltare qui.

Delle musiche del film, la preferita in assoluto era il tema di Apollonia, Love Theme, che accompagna il soggiorno siciliano di Michael. 

Mi la do si la do la si la fa sol# si…

Il tema che dopo la terza parte del Padrino, abbiamo scoperto chiamarsi Brucia la terra, per noi nel 1972 si chiamava Parla più piano, con le parole di Gianni Boncompagni, cantato da Gianni Morandi. Nelle nostre playlist però, sempre le solite tre volte consecutive, avevamo preferito la versione di Johnny Dorelli, che ci sembrava più da crooner, più consona alla matrice americana, alla Johnny Fontaine, per intenderci, il cantante protetto dal Padrino (che per molti maliziosi del tempo era ispirato a Frank Sinatra, ed ai suoi presunti collegamenti con le famiglie di New York).

La potete ascoltare qui.

Molti anni dopo ho scoperto una curiosità molto peculiare su questo celeberrimo tema d’amore (per gli americani Speak Softly Love). Come spesso usano i compositori di musiche da film, Nino Rota, riprese questo tema da un’altro tema che aveva già pubblicato, che faceva da colonna sonora di un film di Eduardo De Filippo, Fortunella, con Giulietta Masina ed un orribile personaggio, interpretato magistralmente da Alberto Sordi

Il tema arrangiato come una marcetta ridicola, accelerata e marionettistica si riconosce subito (sempre mi la do si la …) ma fa tutt’altro effetto e sarebbe rimasto dimenticato senza quell’arrangiamento pastorale e siciliano, negli strumenti e nelle sonorità, del 1972.

Lo potete ascoltare qui.

Qualche commentatore anche oggi, cinquanta anni dopo, ha voluto sottolineare il rischio di un film come Il Padrino. Il rischio di trasmettere una immagine romantica di una banda di criminali. Una immagine tutto sommato positiva, che raffigura questi sanguinari assassini, come la parte buona del potere, affollato da pezzi ‘i novanta, della Chiesa, della Politica, dello spettacolo, meno sagaci ed attenti dei boss mafiosi.

In effetti quando il film uscì queste polemiche avevano qualche ragione di esistere. Ricordo che si vociferava di collegamenti di Mario Puzo, con famiglie alla Gambino, che lo scrittore fosse di fatto un portavoce narrante della chimerica età dell’oro della Mafia, gli anni quaranta, al confronto con le nuove mafie emergenti della droga e del cinismo senza scrupoli “morali” (sic).

In quegli anni in Italia ben due Commissioni d’inchiesta Antimafia avevano evidenziato collusioni e ricatti reciproci tra la nostra mafia e la politica (nelle relazioni di minoranza, ovviamente), anche se sembrava che queste risultanze interessassero soltanto a Michele Pantaleone e ai lettori dei suoi libri.

Negli USA la Commissione Kefauver, prima, e le dichiarazioni alla Commissione McClellan di Joe Valachi, il pentito raffigurato come una mela marcia in un libro ed un film di medio valore, poi, avevano a fatica definito i contorni criminali della mafia americana. 

Da quelle esperienze discende il successivo intervento di Giuliani che con Falcone avrebbe sgominato la Pizza Connection, altro bel film di Damiano Damiani.

La saggezza di Don Vito Corleone, la spietata lucidità di Michael Corleone, che sembra costretto dall’altrui avidità ad imbracciare metaforicamente i mitra, certamente non sono in linea con il vento culturale americano che dai Kennedy in poi vorrebbe scrollarsi di dosso i tentacoli della piovra con la testa in Sicilia.

Ma oggi sappiamo troppe cose su quegli anni, su quelle vicende, abbiamo ascoltato tanti pentiti, non sono sufficienti un buon romanzo ed un ottimo film per poterci convincere che la mafia non faccia pienamente schifo come una puzzolente e intollerabile montagna di merda.

Un’ultima notazione sugli spettatori in sala. Oggi al cinema non si trova mai tanta confusione. Già prima del covid difficilmente le sale si riempivano come ci accadeva fino agli anni ottanta. Dopo la pandemia sono ancora più vuote.

Con noi a vedere il Padrino, cinquanta anni dopo c’erano però tre ragazzi ed una ragazza, ad occhio ancora liceali. Qualcuno di essi aveva già visto  il film e richiamava l’attenzione degli altri anticipando dove prestare attenzione. Tutti e quattro seguivano costantemente il loro cellulare, ma non per distrarsi, per seguire su Google o su IMDB, notizie e approfondimenti sul film, o su attori e attrici.

Si distraevano tra loro, parlavano spesso sul film (anche se del film), ma per me hanno rappresentato un filo di speranza. Modalità diverse, strumenti impensabili per me che tenevo sollevato un registratore tra i posti anteriori per diffondere musica in viaggio, ma uguale passione per il cinema, per le storie, per i sogni che al cinema allargano lo sguardo e sfruculiano la nostra fantasia.

Questi cinquanta anni non sono passati invano.

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