Ho più volte qui scritto che una delle eredità che mio padre mi ha lasciato sono stati i tanti libri sulla mafia (Michele Pantalone su tutti), sulla storia della mafia, e la passione civile nel seguirne le evoluzioni nel tempo.
Avere letto questi tanti libri mi ha consentito di curare la Storia della Mafia a puntate sul giornale murale L’Einaudito a scuola.
Avere sviluppato quella conoscenza mi ha consentito di avere una indimenticabile conversazione con Rocco Chinnici dietro il palcoscenico del Teatro Vasquez nel 1983.
Conoscere quelle connessioni raccontate negli atti delle varie commissioni parlamentari e in quei libri che riempivano scaffali della mia libreria, mi ha consentito di evidenziare la contraddizione intrinseca tra l’educazione alla legalità che la scuola formalmente ci insegnava e la presenza al vertice della Regione Siciliana di uomini appartenenti ad aree chiacchierate della politica, ed appartenenti allo stesso partito del Ministro della Pubblica Istruzione, a cui esternavo questi pensieri in un dibattito pubblico (alla presenza dello stesso Presidente chiacchierato).
Oggi ho imparato che quel mio intervento al dibattito rientra nella categoria della parresia.
L’ho imparato leggendo un libretto, così definito solo per le dimensioni, che è stato presentato ieri nel cortile del Gargallo. Trent’anni e un giorno, di Fabio Granata e Peppe Nanni, Algra Editore.
Giusy Sciacca, scrittrice, ha presentato il libro alla presenza di uno degli autori Fabio Granata, Assessore alla cultura e alla legalità del Comune di Siracusa, e del curatore della prefazione, Sebastiano Ardita, magistrato fortemente impegnato in varie forme ed esperienze nel contrasto del crimine organizzato, della mafia.
Il breve, ma intenso dibattito, ha messo in chiaro come la convinzione del necessario primato della legalità, dell’impossibilità di scendere a patti o compromessi con il crimine sia una categoria politica, eminentemente politica. Una pregiudiziale politica che dovrebbe segnare confini e stabilire l’impossibilità di certe alleanze.
Il libro, per espressa indicazione del suo autore, si offre come strumento di riordino e compendio di alcuni fatti e spunti della storia di questa lotta alla illegalità, alla criminalità, alla mafia, utile alla formazione di questa consapevolezza nelle giovani generazioni, assenti negli anni cruciali di questa storia, e nelle coscienze dei tanti distratti, anche se generazionalmente presenti.
Per la mia formazione già citata, non ho trovato fatti nuovi, o scoperte importanti, in questa ricostruzione. Ma ho apprezzato lo sforzo di coordinamento delle cose.
Di valore anche storico i profili di umanità di Paolo Borsellino, che risaltano dagli aneddoti e dalle confidenze raccolte dagli autori dalla viva voce dei familiari.
Due le parole chiave che ho trovato ripetute significativamente più volte nel centinaio di pagine del libro:
Connessioni e Tempo.
Qui stanno gli strumenti di questo lavoro, utili alla formazione di quella coscienza e di quella consapevolezza.
Non limitarsi all’elenco di fatti e note, di date di morte soprattutto, ma sforzarsi di trovare quali connessioni mettono insieme i fatti apparentemente lontani tra loro e lontani nel tempo.
Valutare la portata del trascorrere del Tempo, come mezzo di diluizione, di mascheramento, delle responsabilità. Non è la stessa cosa comprendere una connessione ed una responsabilità nelle immediatezze temporali di un fatto, con i protagonisti in vita ed attivi nella gestione della cosa pubblica, o della cosa nostra, che comprenderla trent’anni dopo.
Sollecitare a comprendere tempestivamente le connessioni che stanno tra le cose, i fatti, le scelte, gli “errori”, le carriere, è il principale merito di questo libro.
Alla storia raccontata in questo libro manca un’ultima connessione, ancora non materializzatasi prima della stampa, ma attesa “con curiosità e disincanto” dagli autori. Le motivazioni della sentenza d’appello sulla Trattativa Stato mafia.
Le motivazioni apparse da qualche giorno sono state commentate dai relatori dell’incontro di presentazione. Non potevano avere migliore conferma i timori e le accuse lanciate dagli autori di questo libro.
Tali motivazioni, confermando l’esistenza di una indicibile trattativa Stato mafia, attenuano le responsabilità di chi vi partecipò per avere agito con un buon fine. L’esigenza di fermare l’escalation di violenza stragista e terroristica minacciata ed attuata nelle sue prime tappe. L’esigenza di accettare “un male minore” per evitare un danno maggiore alla Repubblica ed ai suoi rappresentanti istituzionali, direttamente e personalmente minacciati di morte.
Con forza ed encomiabile sincerità queste motivazioni sono state criticate sia dal dott. Ardita, che da Fabio Granata, che dalla conduttrice dell’incontro, Giusy Sciacca.
Ricordando altri episodi, anche personali, anche non compresi nel libro presentato, Fabio Granata ha concluso l’incontro con la frase: “per questo non possiamo più dirci appartenenti a questa destra”.
Dalla storia politica dell’assessore Granata mi dividono tante cose, ma questa sua coerenza nel riconoscere, di più nell’affermare, nel difendere, il primato della legalità, dell’impossibilità di fare patti con il male, che attraversa tutto il libro e l’appassionato intervento di ieri sera, mi sembra una forma di parresia, una forma di connessione che voglio tempestivamente cogliere e condividere, senza divisioni ideologiche o politiche.