Miguel son sempre mi – La Lama e l’Inchiostro di Ciro Auriemma – Piemme

El Dindonderoooo!

La mia generazione è cresciuta con tantissimi caroselli indimenticabili.

Uno per esempio era quello di Miguel (Miguel son sempre mi).

Certo un occhio adulto lo avrebbe qualificato più propriamente messicano, così come la Carmencita del caffè Paulista doveva essere sudamericana, forse proprio brasiliana.

Ma i miei occhi da bambino leggevano tutto come spagnolo, condizionato dalla lingua e dalle desinenze.

La Spagna era un vero e proprio mito della mia infanzia. A partire dalle origini della mia famiglia, che mia nonna assicurava provenire da viaggiatori spagnoli, conquistadores. Al massimo portoghesi, ma un bambino che confondeva Spagna e Sudamerica, figuratevi se si preoccupava a mischiare Spagna e Portogallo.

Da post-adulto devo dire che probabilmente l’intuizione di mia nonna non era del tutto errata. I miei studi sull’albero genealogico della famiglia Costa suggeriscono una origine spagnola (o portoghese, va bene, quanto siete pignoli).

Non si trattava di Conquistadores però. Sembrerebbe fossero falegnami venuti al seguito di qualche abate, o nobile, per arredare le sorgenti numerose abbazie di quel diciassettesimo secolo. Il capostipite, infatti, reca un prefisso “Da” nel cognome, che tra il primo e l’ultimo figlio (da cui discende il ramo mio) si perde lasciando una lunga teoria di Vito, Gaetano, Vincenzo e Giuseppe, tutti falegnami, fino a mio nonno.

Con queste gocce di Spagna nel sangue l’incontro con Sciascia, con i suoi libri e i suoi saggi, mi fece preferire la sua matrice letteraria spagnola a quella francese. Tra Stendhal e Cervantes (Miguel) la mia predilezione fu netta.

Era proprio quella Spagna lì. La Spagna da cui mi sentivo generato. La Spagna di Calderon de la Barca, prima che i giochini verbali con vita e sogno divenissero esclusiva di Marzullo.

La Spagna di Don Chisciotte, che lessi avidamente dall’edizione che mio padre custodiva nella libreria.

Grazie sempre a Sciascia, il “mio” Don Chisciotte era più vicino alla lettura di Unamuno, El Rector (un altro Miguel di Spagna).

Avere incontrato Miguel Cervantes mediato da Sciascia e i suoi saggi, fu certamente la causa della mia campanilistica connessione logica tra Cervantes e la Sicilia. La battaglia di Lepanto, il caso poi sgonfiato della origine spagnola (proprio da Cervantes) della parola mafia, tutto rinforzava questa connessione.

L’uscita del libro “La lama e l’inchiostro” di Ciro Auriemma per la Piemme Edizioni ha turbato un mio equilibrio “oriundo”.

Che c’entra ora la Sardegna con Miguel Cervantes? Miguel non son mi?

Mi sono dovuto arrendere. La storia conferma la presenza di Cervantes a Cagliari.

Il pretesto storico offre ad Auriemma l’occasione di raccontare con piglio avventuroso e trascinante i giorni di Miguel a Caller (Cagliari). Inventa una avventura di intrighi di corte, che coinvolge nobili, priori, istituzioni della Corona, la Santa Inquisizione, attraverso la quale Miguel Cervantes Saavedra (il monco) si districa donchisciottescamente. Accompagnato da un giovane gordo (cicciotello e imbranato) che si chiama Pablo Sanchez (e come lo volevi chiamare).

Nei comportamenti, nelle scelte, negli snodi della vicenda spesso Miguel e Pablito ricordano Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, che secoli prima, cercavano di scoprire chi aveva ucciso alcuni prelati. Ma il Miguel Cervantes di questo romanzo, unisce all’astuzia una versatilità da combattimento che Sean Connery aveva perso indossando il saio.

Ciro Auriemma tradisce l’intenzione di non sprecare nulla del materiale di suggestioni che ha a disposizione. La tessitura del romanzo è ricca, varia, opulenta e sontuosa.

In più riprese descrive in maniera nostalgica e struggente i luoghi della sua cara Sardegna. Un lungo e ricorrente addio ai monti manzoniano, intervalla i momenti più accesi. Sicuramente Auriemma ha letto le pagine in cui Sciascia attribuisce a Cervantes il ruolo di fonte ispiratrice di Manzoni.

Per non farci smarrire contestualizza ognuno dei più di cinquanta capitoli del libro con un sottotitolo esplicativo, proprio alla maniera di Miguel.

Nella ricostruzione narrativa Auriemma crea una cornice in cui il vecchio Pablo racconterà al figlio tutta la vicenda, intermezzando la storia con le scene di riavvicinamento tra padre e figlio in articulo mortis. Questa scelta gli permette il confronto tra i vari personaggi coinvolti, e il confronto tra momenti ed epoche diverse. Riesce così a fare emergere numerose riflessioni sulla vita e sull’umanità, senza correre il rischio di essere stucchevole.

«Si muore,» e guardò una mano, le dita ossute, come se le vedesse per la prima volta «lentamente, nel corpo più spesso che nello spirito, perché questo più spesso muore all’improvviso.» Col dorso della mano si asciugò lo sguardo. «Vivere ci uccide, figlio mio, questo ho imparato, nasci e subito inizi a morire, cresci, impari e quello che hai imparato non serve già più a nulla, ami e vieni tradito, riponi la tua fiducia e in cambio che ottieni? Pugnali,» disse «e tu muori,» disse «muori,» ripeté «e ancora muori!» gridò.”

Soprattutto, in più punti emerge la straordinaria importanza di scrivere storie, raccontare storie, sognare storie, condividere storie. La forza delle storie e la vitalità insita in ogni curiosità. La magica capacità delle storie di tenere legati insieme ricordi e destini, lontani, vicini, o inventati.

«Questo volume è stato salvato da un incendio di oltre cinquecento anni fa, durante l’assedio di una città» disse.

Allungai una mano verso la pergamena e subito la ritrassi. L’idea di sfiorare qualcosa di così antico e ancora conservato mi diede una sorta di vertigine. «Che cosa contiene?» chiesi.

«Nomi» disse. «Nomi e date, nascite, matrimoni, decessi.»

«Ma allora,» risposi io «non contiene nulla di davvero importante.»

Il frate mi concesse un sorriso benevolente. «Al contrario,» disse «contiene qualcosa di inestimabile.» Aprì il libro e lesse qualche nome e l’evento a cui il nome era associato, un uomo e una donna che si erano uniti in matrimonio nel terzo mese del tale Anno Domini. E mi parve di capire, sì, mi parve che fossero chiare le sue ragioni: «Se noi li possiamo leggere, in qualche modo loro sono sopravvissuti,» dissi «lo sono nel nostro ricordo, e quindi…»

«Sono eterni» mi interruppe il frate. «È così, ragazzo. La scrittura può conferire all’uomo una forma di eternità, è un filo lungo teso tra gli uomini e la grandezza di Dio.»

Davvero questo romanzo ha un respiro idealista e avventuroso, una storia divertente e appassionante in cui nascondere però parti di sé.

Miguel Cervantes volle creare un personaggio che insegue le sue idee, la sua natura, i suoi sogni, senza curarsi della prosaicità del mondo che lo circonda, e lo avvolse di una ironia affettuosa.

Ciro Auriemma crea un Miguel Cervantes, cavalleresco, astuto ma innamorato (a sue spese, come sempre capita agli innamorati), che possa attraversare il porto di Cagliari, combattere, vincere, sbagliare, sopravvivere, vivere al posto suo, nonostante tutto…

All’inizio della lettura, ogni volta che veniva citata l’isola, dovevo sforzarmi di ricordare che si parlava della Sardegna e non della Sicilia.

Ma poi tra i personaggi della storia fa la sua apparizione Padre Costa e mi sono riappacificato con il mio campanilismo.

Siciliani, sardi, una faccia, una razza.

Ho ritrovato molti profumi in comune.

Ho sentito risuonare il mio cognome in quel mondo seicentesco,di abati e priori e falegnami, di nobili e corrotti, di cavalieri di arme e di amori, in cui ho immaginato si sia sviluppato quel cognome.

Anch’io da lettore posso dire: Miguel son sempre mi.

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