Mi dicono: Non scrivi nulla sulla canzone di Angelina Mango – e di Madame – che ha persino vinto il Festivál, più o meno inaspettatamente?
Cos’è? Non segui più il fenomeno Madame?
Fai lo snob, ora che è diventata mainstream?
No, no, tutt’altro.
Ho atteso con vera trepidante curiosità questa canzone, e sin dal primo ascolto, sono stato travolto dalla forza e dalla profondità della canzone La Noia di Angelina Mango, Madame e Dardust.
Ho più volte cominciato a scrivere questo post, poi c’è sempre stata qualche cosa che mi ha spinto a ritardare questa analisi.
Una volta l’attesa della cover, una volta le polemiche napoletaniste, una volta la necessità di ascoltare ancora, approfondire ancora, filtrare ancora testi e musica per coglierne il maggior numero di spunti.
D’altronde, dopo tanti post su Madame, dopo averle dedicato il capitolo più lungo del mio inutile libretto pubblicato a maggio, qualcuno poteva pensare che mi sarei perso questa straordinaria occasione per evidenziare ancora una volta il talento indiscutibile della giovane Francesca vicentina?
Mentre, infatti, Madame si gode la sua vacanza a New York, la canzone scritta con Angelina Mango vince il Festivál.
In principio fu il tempo. Il ritmo e l’evocazione delle atmosfere latine, le chitarre, che tanto piacciono a Dardust e a noi (indimenticabile la versione di Nimpha, con Luca Faraone alla chitarra a Radio 2 Social Club), sin dal primo ascolto hanno attirato la mia attenzione, hanno spinto i miei piedi a battere il tempo, le mie spalle a muoversi, mi hanno fatto desiderare di essere su una spiaggia con i piedi nudi nella sabbia a ondeggiare zoppìante, invocando l’unione di cielo e terra e mare.
Già con Marea il team Madame aveva fatto ricorso a un ritmo antico, tribale, naturale, che spinge il cuore di chi canta, balla, o semplicemente ascolta, a battere allo stesso tempo di chi gli è accanto.
Il tempo di questa cumbia con la sua sequenza apparentemente spezzata, esprime già al primo livello di ascolto, quello senza mediazione della melodia, o del testo, l’incedere nel mondo, zoppìante, incerto, a tentoni di due ventenni che vengono dal proprio personalissimo dolore.
Il tempo di una festa che si ostina a festeggiare, a rivendicare, a vivere, anche se forse da festeggiare non c’è proprio nulla.
Poi arrivano le parole, le rime, i pensieri che le due ragazze tanto giovani, quanto colte e intelligenti, hanno appoggiato sul dondolio spezzato della cumbia.
Le bimbe incasinate con i traumi si accorgono che tutto intorno a loro è immobile, è pigro. La città diventa una fossa, una palude, che non offre spunti, non fa prendere vita ai propri disegni. Se tutto resta fermo, alla fine tutta la spinta si trasforma in noia.
La borghesia di Moravia, L’ospite inquietante di Galimberti, echi pasoliniani, tutto concorre a dare voce e forma al rischio peggiore che si nasconde nelle stanze dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze.
Che Angelina e Francesca traducono in alcuni versi folgoranti, immagini che daranno nuova forma e immagine alla noia, al nichilismo, dei giovani.
Muoio senza morire
In questi giorni usati
Vivo senza soffrire
Non c’è croce più grande
Non ci resta che ridere
in queste notti bruciate
Una corona di spine
sarà il dress-code per la mia festa
I giorni usati, i giorni che passano senza che venga fatto un passo avanti, giorni non vissuti, non strappati all’oblio.
In un, troppo presto dimenticato, film di Pupi Avati, Impiegati, con una delle ultime prestazioni di Nik Novecento, i trentenni protagonisti del film fanno un gioco crudelissimo. Provare a raccontare i momenti vissuti, degni di essere ricordati e misurare il tempo che ci si mette a ricordarli tutti. Maggiore sarà questo tempo, migliore e più piena sarà stata la vita vissuta. Ecco i giorni usati di Angelina e Madame sono proprio tutti quei momenti che non verrebbero ricordati in quel perfido gioco.
Muoio senza morire.
I giorni usati mi spengono, mi sottraggono voglia e vita, muoio, ma senza morire davvero, che sarebbe almeno una forma di autodeterminazione, di scelta, dinamica.
Forse senza consapevolezza piena, ma recuperando dalla memoria, citazioni e pensieri accolti pur nella giovanissima età, questo verso – e il successivo “vivo senza soffrire” – richiamano fortemente Il Desiderio del Cielo di Santa Teresa D’Avila: Muoro perché non muoro.
Di tanti pezzi si compone il puzzle di questa canzone, la passione che vuole comunicare ai tanti giovanissimi fans che affollano concerti e social di Madame e che con Francesca si aprono e tirano fuori anche i più intimi disagi. Anche una riflessione teologica, se serve.
Non sorprende allora il favore, l’identificazione, il riconoscimento del Presidente dell’Accademia Pontificia di Teologia, Mons. Staglianò, a questa canzone. S.E. ha tante volte attirato l’attenzione verso i guasti, il nichilismo, la noia che distrugge dall’interno i giovani costretti a vivere nella logica dell’ipermercato, e lo ha fatto molto spesso utilizzando le parole delle canzoni che arrivano alle orecchie, allo stomaco, all’anima dei nostri ragazzi. Anche imbracciando direttamente la chitarra e cantando con loro.
Vivo senza soffrire
Non c’è croce più grande
Una vita piatta, spenta, senza la sofferenza, senza la passione, è la croce più grande. Una croce pesante da portare, da trascinare, senza poterla lasciare ad alcun Simone cireneo lungo la via.
Non ci resta che ridere in queste notti bruciate
Ai giorni usati corrispondono le notti bruciate, le notti della gioventù ancora e sempre bruciata, le notti dove cerchiamo nell’alcol, nella sintesi chimica, quella vita che ci manca durante i giorni. Che attraversiamo ridendo, come iene, come fosse un ghigno che sberleffa la vita, che pure ci avevano insegnato essere preziosa, tanto da indossarla a testa alta sul collo.
Una corona di spine sarà il dress-code per la mia festa
Folgorante. Immediata. Dipinta. Una frase così, un verso così sono degni della migliore tradizione cantautorale italiana.
Attraverso la mia festa, la mia notte bruciata, indossando la mia corona di spine, il simbolo della mia destinazione sacrificale, della croce che sto portando, vivendo senza soffrire.
Quindi faccio una festa, faccio una festa
Perché è l’unico modo per fermare
Per fermare
Per fermare, ah
La noia
Se non ci fosse bastato il richiamo citazionista di Santa Teresa si inseguono la croce e la corona di spine a dare conferma a Mons. Staglianò che scrive di questa canzone:”Esprime i valori del Cristianesimo”.
Quanta gente nelle cose vede il male
Viene voglia di scappare come iniziano a parlare
E vorrei dirgli che sto bene ma poi mi guardano male
Allora dico che è difficile campare
Anche se ci volessimo sottrarre a questa asfissiante negatività, a questo inquietante nichilismo, non possiamo. Comodamente ci si rifugia nel conformismo che è sempre molto ipocrita, come più spesso e più profondamente lo è con le donne
Princess ti chiama princess
Allora adesso smettila di lavare i piatti
Queste due preziose cantautrici italiane però conoscono la via per uscire dalla noia, dall’ipocrisia, dal nichilismo. L’amore, che qualcuno dovrà pur cantare. L’amore pieno, vissuto, da cui ci facciamo attraversare e trafiggere. Il dono di sé. Come scrive ancora S.E. Staglianò:”Si tratta di decidersi per la vita, a costo di ogni sacrifico e di ogni sofferenza”.
Muoio perché morire
Rende i giorni più umani
Vivo perché soffrire
Fa le gioie più grandi
Un bagno caldo e ristoratore nella più piena umanità, riempie di senso i giorni, che non saranno più usati, ma umani. Nella consapevolezza di morire si ritrova un senso pieno alla vita.
La consapevolezza che la sofferenza non è un incidente, una deviazione, ma la materia di cui sono fatte le gioie, le gioie più grandi.
La sofferenza, intesa come passione e compassione, con cui dare sostanza ai propri giorni, al proprio vivere, diventa una componente essenziale della vita, come anche la morte lo è diventata nel verso precedente.
Strabiliante per due ragazzine cresciute in un mondo che la sofferenza e la morte le ha espunte da ogni orizzonte, per non mettere in crisi le casse dell’ipermercato.
A proposito di sofferenza, Angelina Mango ha pure portato la sua personale orfananza nella serata delle cover. Lo ha fatto in punta di piedi, senza sfruttare mercantilisticamente questa opportunità. Ha offerto una sentita e commossa – e commovente – interpretazione della bellissima canzone del padre, Pino Mango, La rondine.
È stato talmente sincero il suo sospiro che tutti noi che abbiamo pianto più o meno prematuramente un genitore – o comunque un caro affetto – ci siamo riconosciuti e abbiamo unito le nostre personali lacrime alle sue, riesumandole dai più reconditi anfratti dove le avevamo sepolte.
Ho detto tante volte, parlando di orfananza, che noi orfani ci riconosciamo, ci lampeggiamo le luci degli occhi, come i fari per strada, anche senza parlare.
Per questo motivo ricorro a Elisa Cappello, un ingegno multiforme, una poetessa che mi onora della sua amicizia, nonché una sensuale e provetta salsera, – e se la salsa recepisce alcuni elementi dalla tradizionale cumbia, possiamo dire che tutto si tiene.
A Elisa Cappello lascio lo spazio per commentare quel momento. In poche righe di un post su Facebook ha condensato poeticamente quello che tutti noi sofferenti e mancanti abbiamo sentito.
Quando si crea un’opera d’arte (e ciò che rende arte un’opera è la sua bomba creativa di verità) la si consegna al tempo e allo spazio, agli atomi del big bang che ancora accrescono l’universo. E così può capitare che una canzone, bellissima, scritta nel 2002 da uno dei più raffinati cantautori italiani, arrivi poi nel 2024 alle corde vocali di sua figlia e che risuoni ancora, con significati diversi ed emozioni nuove, ricordandoci che siamo legati per sempre nella inspiegabile giostra del creato e che l’amore vero (come vera è l’arte) non finisce mai.
E forse quando Pino ha scritto questa canzone non lo sapeva ancora. Ma l’universo sì.
Elisa Cappello, post Facebook del 11.2.2024
Grazie Elisa.
E pensare che c’è ancora chi si ostina a considerarle canzonette…
Come sempre Gingolph va oltre le parole oltre le note riesce a trasmettere il respiro profondo delle emozioni 💚
Gingolph ha dato una lettura originale al tema proposto dalla giovane Angelina Mango, la cantante, figlia d’arte, che, con grazia e altrettanta grinta, presenta a Sanremo “la noia”, entusiasmando il pubblico e il nostro Gingolph. L’accostamento alla “Noia” di Moravia e a tutti gli interpreti della cultura occidentale novecentesca induce a una più ampia riflessione sulla nostra società, sovrastata da falsi modelli consumistici, ben citati nel testo e ampiamente ripresi da Gingolph.
Bravo Giuseppe, come al solito sai leggere e interpretare in maniera profonda gli scritti e le opere artistiche che incontri lungo il tuo viaggio. Grazie sempre per regalarci le tue riflessioni che riescono a darci qualcosa in più, che magari non avevamo colto a pieno. Un caro abbraccio.