Per un ritratto dell’artista da giovane – Avevo un fuoco dentro di Tea Ranno – Mondadori

L’anno della maturità dentro di me si agitavano, ora in combutta, ora in guerra, Orwell e Joyce. Dickens lo avrei riscoperto dopo, in quel tempo di furori, più o meno astratti, era troppo borghese per me.

Per gli esami vinse il giornalista e scrittore di origine indiana, per la vita vinse l’irlandese.

Mi sono nel tempo convinto che per comprendere Ulisse, e avvicinare, solo avvicinare, Finnegan’s wake, occorra assimilare bene bene uno dei primi scritti di James Joyce, Stephen Dedalus, che porta come sottotitolo esplicativo: Per un ritratto dell’artista da giovane.

Indagare tra le righe, le tracce più o meno esplicite di quella Dublino, di quella famiglia, di quelle speranze, desideri, orrori che furono la sua adolescenza, fornisce la chiave per comprendere tutte le telemachie successive di James Joyce.

Tea Ranno è tornata in libreria con un nuovo libro. Avevo un fuoco dentro, Mondadori.

Un libro decisamente sorprendente.

Un racconto autobiografico diretto e senza veli o nascondimenti, della sua malattia.

Osservo che le tante presentazioni che stanno accompagnando l’uscita del libro si concentrano sulla maledetta e misconosciuta endometriosi, la malattia raccontata da Tea Ranno. Non so se fanno lo stesso le altre recensioni già pubblicate (evito sempre di leggere recensioni altrui prima di fare la mia: sarebbe frustrante scoprire che sono tutte più belle e non ne scriverei più).

Non ho (ovviamente) esperienza diretta della malattia, neanche indiretta. Non ho alcuna minima competenza tecnica per parlare di endometriosi. Quindi mi asterrò categoricamente dal parlarne.

Per fortuna il libro di Tea Ranno offre un’altro piano di lettura (così fanno gli artisti) alle sue pagine ed è su quello che planerò senza indugio.

Due anni fa sono stato invitato a tenere una breve (ma molto emozionata) prolusione alla presentazione del libro Gioia mia di Tea Ranno. Ho cercato con parole timide, ma molto sentite, di restituire la poetica dell’amurusanza, di ridare quella dimensione di favola moderna, sognatrice e concreta che aleggia nel mondo di Terramarina, la Macondo di Tea Ranno, adagiata sulla terrazza degli Iblei.

In quell’occasione feci spesso riferimento all’esperienza di mia madre, alla sua sensibilità, alla sua disperata e tenace ricerca delle amurusanze nella sua vita, non tanto lunga, ma abbastanza travagliata.

Mi rimase in cuore un non detto. Mi chiedevo da dove venisse quella straordinaria capacità di raccontare la poetica dell’amurusanza, di cosa si fosse nutrita, quali elementi chimici le avessero dato vita.

Due anni dopo trovo tutte le risposte in questo straordinario libro appena uscito. Un libro che meriterebbe come sottotitolo, Per un ritratto dell’artista da giovane (come il Dedalus di Joyce).

Ancora una volta apprendiamo che la scrittura dalla sofferenza viene, della sofferenza si nutre, nella sofferenza emerge come necessaria.

“Un firmamento è il dolore, una costellazione incommensurabile, e tu sempre lì, mangiata dal cane, tormentata dal fuoco, a cercare parole, a cancellare e riscrivere per avvicinarti, solo avvicinarti, a quello che hai provato quando di dolore morivi. Questo è scrivere… Questo!”

Il mondo in cui cresce e si sviluppa la ferita artistica di Tea Ranno, ancora una volta, è sovrapponibile al mondo di provincia in cui è cresciuta mia mamma. Un mondo di affetti enormi, murati dentro il rigore.

“Del lungo silenzio che segue neppure mi accorgo. Lui s’è alzato, è andato verso la finestra, guarda fuori per nascondere l’imbarazzo, non è uomo di troppe parole, soprattutto per ciò che riguarda la sfera del sentimento.”

“Mio padre i sentimenti non li dimostra, è stato cresciuto a pane e silenzio, nessuna smanceria”

Un mondo dove di certe cose non si parla, dove quelle stesse cose portano lo stigma della vergogna, della natura corrotta, della limitazione funzionale.

“La storia del mio dolore comincia da lontano, da quando ero una ragazzina che niente sapeva delle cose del corpo: tanto brava mia madre a nutrire la mia mente, tanto riservata nel parlare di ciò che riguardava la sfera intima.”

“Era un fatto disdicevole permeato di impurità: le donne col mestruo non possono impastare il pane (sennò non lievita), non possono toccare il vino (sennò diventa aceto), non possono toccare una pianta (sennò secca e muore), non possono toccare i pomodori (sennò la salsa s’inacidisce).

«Neppure girarla col cucchiaio?» avevo chiesto a zia Iolanda quando mi aveva dato quella sorta di vademecum su ciò che in quei giorni avrei potuto o non potuto fare.

«Neppure.»”

I riflessi dell’educazione, della attitudine a essere una brava ragazza e non solo a sembrarlo, diventano monumenti alla rinuncia, condanne alla diversità, alla discriminazione.

“Non avevo un ragazzo perché ero di quelle poco interessanti, secchione, riservate, timide, tutte casa e chiesa. Che ci fai con una così quando la trasgressione è il sale della vita, e loro – i compagni siracusani – si riuniscono per fumare a piazza Adda, si ritrovano la sera alla Nottola o al Trabocchetto, hanno pensieri leggeri e vaporosi, risate leggere e vaporose, chitarre comprate da Moscuzza, jeans strappati, camicie larghe e libri tenuti insieme da una cinghia elastica?

Io ero la paesana, quella che non si sapeva vestire (fuori moda gli abiti confezionati dalla sarta con la seta o la flanella regalate da zia Iolanda), quella che non fumava neppure le sigarette, che non beveva alcolici, non portava i sabot, non si metteva lo smalto sulle unghie, non raccontava le barzellette sconce, andava a messa la domenica e, nell’ora di religione, prima del precetto pasquale, insegnava i canti per la funzione al Duomo, perciò uno di terza, un biondino con gli occhi verdi che pure mi stava simpatico, aveva preso a chiamarmi “Maria Pallas”. E Maria Pallas ero diventata per tutti.”

Un mondo dove la felicità è soggetta al capriccio degli dei, e per questo va nascosta, custodita, segregata.

“giocavamo a immaginare il futuro, ma sottovoce, sempre per evitare che il malo destino s’accorgesse della nostra felicità.”

D’altronde a che servirebbe lamentarsi, gridare, sgomitolare tutto quanto di represso ti intasa cuore e anima?

Se anche il fuoco vero fisico, il dolore insopportabile, i morsi del cane al fianco non vengono accettati, creduti, valorizzati, nessuno accoglierebbe il fuoco dell’anima, il dolore psichico, i morsi della vita non vissuta.

“Ecco, era quella la disgrazia nella disgrazia, il fatto di non essere creduta, e quella, ancora più grave, di non riconoscermi il diritto di spaccare i timpani a tutti urlando: “Sto male”.”

“E così mi muravano in gola ogni lamento, ogni possibilità di sfogo”

Eppure in tutto questo matura ed emerge la capacità di riconoscere le parole non dette, i gesti accennati, gli sguardi loquaci.

«Ci sto io con lei» sbotta infine, spingendo gli altri in corridoio. Mi poggia la mano sulla fronte: «Cerca di dormire» sussurra.

La sua mano è fresca, liscia, così amorosa che mi viene da piangere.”

Si impara a cogliere l’amurusanza in ogni piccola manifestazione, nell’aquilone del nonno, nello sguardo di amici e amiche, nelle esitazioni al telefono, nelle risate, nei sorrisi, nelle cure, nelle attenzioni. Dal profondo del proprio dolore l’artista scorge la cura e nella fiaba di ciascuno, delle persone e dei personaggi, che popolano le notti e i desideri, scopre sempre una traccia balsamica dell’amurusanza.

“Tu vedi affetto dappertutto, mami” mi rimproverano le figlie.”

Tornando solo,per un attimo alla dimensione sanitaria e medicale della storia raccontata, vi si ritrova un insieme di storie di sostanziale malasanità, storie di pregiudizi, di supponenze, di cialtronerie vere e proprie del mondo sanitario. Ma Tea Ranno non alza il dito giudicante, non assume i toni un po’ frusti dell’indignazione. Mescolando alle parole la polvere magica della sottesa ironia, racconta tutte queste vicende e le inquadra dentro una evoluzione, una via crucis che ha fatto di Maria Pallas, l’artista Tea Ranno. La stessa ironia semplice e fulminante di Nanni Moretti nel celeberrimo terzo episodio di Caro Diario.

Ma non furono solo medici e sanitari ad accompagnare con frustate e sberleffi la via del Golgota dell’artista. Tanti hanno contribuito alla definizione del carapace di protezione che ha custodito la fiamma infuocata della penna di Tea Ranno, professori, notai, editor, amici e amiche, a cui mancava amurusanza.

Un documento prezioso questo libro. Il racconto di una costruzione, di una trasformazione. Fino al momento in cui assistiamo alla nascita della farfalla dal bruco. La foto che vorremmo avere tutti.

Più volte nel corso del racconto giunge a Tea Ranno la richiesta, la spinta, l’imposizione, come fosse un dovere, di raccontare la malattia. Sempre risponde di no. E la capiamo, condividiamo questo suo rifiuto.

Si fosse limitata a quel racconto, avremmo avuto l’ennesimo caso di auto fiction, splendida auto fiction, ma sarebbe stato un pamphlet, un saggio autobiografico.

Avere atteso, avere unito altre filame, Vincenzina, Teresa, tracce di vita, tracce di emozioni. Avere inquadrato tutto questo in una storia letteraria, scritta con lingua letteraria, raccontata con spirito letterario, rende questo libro un autentico prodotto di letteratura. Un romanzo. Il romanzo della sua vita, della sua formazione, il ritratto dell’artista da giovane, ma un romanzo. Letteratura.

E non è questa la più bella forma di amurusanza che un’artista, una scrittrice, poteva regalare al suo pubblico di lettori?

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