Ogni volta che Mario Fillioley mi consiglia un libro mi precipito a leggerlo. Perché so già che diventerà un pezzo della mia vita. È capitato tante volte, quest’anno già due.
Per la precisione, l’indicazione e consiglio di lettura non era personale, era contenuto in un post social che tradiva l’urgenza di dire a tutti (all’internet intelligente, come la chiama lui) che stava leggendo un libro che lo stava avvinghiando inesorabilmente.
Scavalcando quel CUP inefficiente (come tutti i CUP) che è il mio comodino virtuale, con le sue pile e le sue precedenze sempre sottoposte a tensione e revisione, il libro di Antonio Franchini, Il fuoco che ti portavi dentro, pubblicato con Marsilio, si è imposto alla lettura.
Ci sono precipitato dentro.
Un lungo snodo lavico, fatto di rancore, di pregiudizio, e di giudizio, di memoria, di dolore, d’amore mi ha assorbito e mi ha trascinato lungo le pendici di questo vulcano.
Franchini racconta di sua madre. Ma detto così fa scattare la reazione alla troppo imperante auto fiction.
Franchini costruisce un romanzo sulla complessa personalità della madre. Non usa schermi e paraventi. Trattandola come un personaggio di un romanzo, si può permettere di dirla, di mostrarla, di agirla come in effetti era. Una donna paradigmatica di una dimensione ferina e guerresca, in lotta con il mondo e con se stessa. Una donna che ama con le viscere, che non sa che farsene del cuore. Lei stessa, infatti, dice che intestino e cervello sono uguali e gemelli.
Una donna carnale, volgare, violenta, agitata da questo fuoco dentro che la scuote come un vulcano. Una sgherra. Una beneventana che commercia con chiunque e su tutto.
Una Medea che divora i suoi figli per violentarne la libertà, che respinge ogni istanza di autonomia o libertà di tutti quelli che la circondano, fossero anche i suoi figli.
Tutte zoccole le femmine, tutti fessi da imbrigliare gli uomini.
Una guerra continua con tutto e tutti. Insostenibile, intollerabile per una persona normale, ma che Angela conduce in prima linea, anche contro l’oggettiva patologica debolezza del suo corpo, che inspiegabilmente sopravvive fino all’inverosimile.
Il fiume lavico è l’intreccio sovrapposto di due flussi di coscienza: quello dell’autore e quello – de relato – della madre, di Angela Izzo, vedova Franchini.
Antonio Franchini, sia nel racconto del suo flusso di coscienza che in quello che riporta della madre, si serve di parecchi riferimenti pescati dal cinema, dalla musica, dal teatro. Per esempio:
“un Delon ammaccato, come in un film che non è ancora uscito ma sta per, e si intitolerà La prima notte di quiete e piacerà a quelli della mia generazione quasi più dopo che allora, quando esce. Credo che sia perché vi ritroviamo gli atteggiamenti, gli abiti di un romanticismo maledetto e facile da poter indossare oggi da anziani come l’avevamo fatto allora da giovani, come lo sformato cappotto di cammello che Alain Delon porta dall’inizio alla fine.”
Non possono non risuonarci queste citazioni, questi riferimenti, questi esempi che vengono usati per dare spessore alle riflessioni personali. Proprio come questo cappotto cammello di Alain Delon che abbiamo amato, consigliato, condiviso e ancora amato.
Oppure come la lunga disamina della canzone sceneggiata di Mario Merola, ‘O zappatore, spesso usata come sberleffo dalla nostra adolescente irriverenza – soprattutto l’incipit (Felicissima sera…) e la chiusa finale (addinocchiate e vasame sti manu!).
“Con l’ingiunzione finale a inginocchiarsi e baciare le mani paterne, costituiscono due sentenze, due motti eterni, due distici che, seriamente o, più spesso, ironicamente, ogni napoletano avrà pronunciato decine di volte nel corso della vita. I primi due versi sono la denuncia definitiva di ogni forma d’ingratitudine, gli altri due la più perentoria richiesta di umiliazione a noi nota.”
Oppure l’imprescindibile tormentone Lucariè scetate, ‘occafè, con cui Angela in versione milanese accompagna il caffè mattutino al figlio passato a trovarla, che si riflette per intero nella nostra tradizione familiare legata a Natale in Casa Cupiello.
Franchini, dicevo, non usa schermi o paraventi, o furberie letterarie. Avendo superato la forma memoriale verso il romanzo, può trattare se stesso e Angela come due personaggi. Può dire, può scrivere quello che non sta bene scrivere, che non è conveniente divulgare.
Ne esce un ritratto feroce di una madre impossibile, di un rapporto più che controverso tra madre e figlio, tra madre e figlie. Senza lasciare alcun dubbio sulle colpe, sulle responsabilità, senza fornire attenuanti o giustificazioni.
“È la vergogna, perché da sempre io mi vergogno di mia madre.”
“Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri.”
Pian piano Angela si trasforma nel paradigma di tutto quello che caratterizza l’immagine becera del Sud, dell’Italia. Diventa una summa dei vizi nazionali, concentrati e esacerbati nel crepuscolo riottoso di questa donna morente. Madre come patria, da denigrare, da rinnegare, di cui vergognarsi, appunto. In questo schema, Franchini non trova spazio ad alcuna parafrasi dell’invocazione: “Right or wrong is my country/mother”.
“Angela odia sia per differenza sia per affinità, e per affinità, come è in genere naturale che accada, odia ancora più intensamente”
“questo fa l’umanità secondo lei, una moltitudine che trama compatta a danno suo e del suo sangue, ma lei per fortuna è vigile e non si farà confondere, non si lascerà ingannare dai maligni traffici del mondo.”
Una piccola attenuante forse la concede, riconoscendo alla nonna, la madre di Angela, un ruolo di matrice di questa energia distruttiva vomitata tutt’intorno.
“Lei e sua madre sono questo: pensano male, pensano solo al male, immaginano solo il male. Peggio, non al male ma a quello che è il male secondo loro. Lo sospettano dovunque, lo vedono. Anzi, lo prevedono. Non penso alla fatica che fanno a vivere così, non penso a loro con pena o commiserazione, penso solo che mi fanno schifo”
Restano comunque accomunate nella forma alta e solenne di disprezzo intellettuale che riversa su nonna, madre e patria.
Eppure ogni colata lavica con il tempo arresta la sua furia distruttrice, raffredda il suo fronte e si trasforma in paesaggio, in una bellezza naturale a suo modo.
Franchini, osservando la fine sofferente, ma rifiutata pervicacemente, della madre, scrutando nel sentimento che sorprendentemente lo pervade, riflettendosi nella cura della sorella, scopre qualcosa che non si spiega.
“Come fa una madre che ha sempre sbagliato tutto, ma tutto, a suscitare tanta devozione quando persone assai più decorose seminano risentimenti, incomprensioni, indifferenza a ogni passo? È davvero meglio essere una carogna con lampi di umanità piuttosto che una persona decente per conquistare l’affetto di chi ci sta vicino?
Eppure noi sappiamo che cos’è, in realtà, questo lungo, occulto bisogno dell’approvazione di un genitore, fosse pure un mostro, avvinto a noi più strettamente proprio in ragione della sua mostruosità; conosciamo questo senso d’inadeguatezza che non si placa, questa ricerca di un cenno di approvazione da parte di chi ci opprime…”
Non se lo spiega, ma lo sa.
Lo sappiamo tutti.
Il disprezzo intellettuale, l’odio viscerale, il malcelato desiderio di accelerarne la morte, non sono capaci di sovrastare il desiderio irredimibile di trovare quel cenno, cogliere quell’espressione, scoprire quella parola non trattenuta, che misuri l’approvazione di nostra madre, di nostro padre.
Il nucleo inossidabile della nostra condizione dolorosa di orfani.
Orfananza significa anche non poter più trovare quel cenno, cogliere quell’espressione, scoprire quella parola non trattenuta…
Alla fine, quando il vulcano ha espulso l’ultimo lapillo ed è diventato ostensione oscena di un fallimento. L’autore trova la chiave, trova la scintilla che ha acceso una volta quel fuoco che non si è più spento.
Ancora una volta la vita ruota intorno all’amore. Il figlio rilegge quelle fiamme e le inquadra, e le giustifica, forse.
“Non sa dimostrare l’amore e non sa farsi amare.
L’amore è il cruccio di tutti, ma sempre nel senso delle forme assolute: quella, puramente attiva, dell’amare, e l’altra, perfettamente passiva, dell’essere amati.
Del dimostrare amore nel modo più giusto e del farsi amare, cioè dei modi del sentimento, non della sua essenza, non si preoccupa nessuno. Gentilezza e tenerezza sembrano l’elemosina, la declinazione degradata delle passioni.
Ad amare come viene sono buoni tutti, e anche chi ama senza essere riamato trova consolazione in questo sacrificio, ma chi è incapace di risvegliare attorno a sé le forme minori dell’amore conduce una vita aspra e non sa perché.”
Anche questa violenza, questo rifiuto delle forme stucchevoli (‘e vuommeche), questo mandarsi affanculo, questo detestarsi fieramente, che caratterizza il loro rapporto, anche tutto questo è stato amore, è amore.
Mamma,
solo per te la mia canzone vola,
Mamma,
sarai con me, tu non sarai più sola.
Quanto ti voglio bene!
Queste parole d'amore
che ti sospira il mio cuore
forse non s'usano più,
Mamma,
ma la canzone mia più bella sei tu!
Sei tu la vita
e per la vita non ti lascio mai più