Avete presente Rumori fuori scena, quella gustosissima esilarante commedia teatrale (che fu anche film) in cui noi spettatori, con uno scangio, un ribaltamento radicale, osserviamo solo quello che avviene dietro le quinte, e solo attraverso reazioni, smorfie, dialoghi sussurrati, pensieri a voce alta, ricostruiamo quello che accade sul palcoscenico a noi oscurato?
Avete presente quegli album fotografici, un po’ impolverati, consunti, con le fotografie in parte spiccicate, con pagine vuote e con pagine che raccolgono al centro i mazzetti di fotografie che qualcuno si è stancato di appiccicare?
Quegli album che in varie fasi del passaggio da pubertà ad adolescenza ci attirano e ci spingono a chiedere a mamma e papà, chi era questo, chi era quella, come era veramente il nonno, lo zio, quel cugino ormai lontano o sfortunato?
Se avete presente entrambi i riferimenti siete già con lo spirito giusto per leggere questa recensione che ho intitolato Foto Fuori Scena per crasi.
Il libro di cui voglio raccontare è un’opera prima, pubblicata da una giovane (ma già pretenziosa) casa editrice, Ischire, che viene dalla Sardegna Felix.
L’autrice è Katia Fundarò, il titolo, volutamente teutonico, Familienalbum.
Questo romanzo racconta la storia di una famiglia tedesca, ma con origini italiane (credo proprio siciliane) e si sviluppa in un arco di circa trent’anni. Erik e Annamaria e il loro unico figlio Julius.
La storia è raccontata con la stessa progressione che si potrebbe seguire giocando al Bersaglio sulla Settimana Enigmistica: un evento, un tempo cruciale, intorno al quale girano e vanno e vengono tutti gli altri tempi. Più volte ci avviciniamo al tempo, all’evento, ma sempre dobbiamo tornare sulle cornici concentriche perché ancora non siamo pronti, non siamo preparati ad affrontare quel tempo, quell’evento.
Già basterebbe questo stile narrativo a intrigare. Ma Fundarò fa altro (e lo fa benissimo come vedremo). Ogni momento, ogni tempo delle cornici laterali (ogni fotografia), è rappresentato dal flusso di pensieri autonomo, dalle proprie personalissime visioni e sensazioni, di uno dei tre protagonisti. Due adulti, un uomo e una donna, sposati, innamorati prima e poi un po’ meno, un bambino che diventa un ragazzo, che diventa un uomo.
Siamo sballottati nel tempo e nelle coscienze, nelle teste di ciascuno, da un capitolo all’altro. Dopo un primissimo attimo di smarrimento, la straordinaria capacità di Katia Fundarò di variare lo specifico tono di voce della pagina in funzione della testa e del tempo, ci consente di riconoscere subito dalla prima riga in quale testa ci troviamo per ogni capitolo.
Un album di foto, appunto, ma fuori scena. Come se invece delle foto in posa davanti alle torte, ai tramonti, alle montagne, abbracciati da fissare per ricordo (falsamente) imperituro, una mano beffarda avesse raccolto le foto scartate, quelle da soli, mentre pensiamo, mentre guardiamo non visti, mentre cambiamo sentimenti e volontà e gli altri non lo sanno, anzi nemmeno lo sospettano.
Così la vicenda appassionata e appassionante di questa famiglia, che si disgrega mentre tenta di non deragliare, non la leggiamo raccontata sulla pagina, non la vediamo svolgersi nei suoi momenti cruciali, nelle sue sliding doors. La intuiamo dai pensieri di ciascuno, dai sentimenti espressi, più o meno male, o nascosti, altrettanto più o meno male.
Voglio subito precisare che lo spirito di questa scrittura non è pirandelliano, non siamo dalle parti di Così è, se vi pare. Non ci sono rivelazioni nascoste nelle singole riflessioni. Troviamo piuttosto quel senso di progressivo completamento, di crescente consapevolezza nostra di lettori e degli stessi personaggi, che non possono fingere all’esterno della loro testa.
Una ordinaria storia d’amore e di famiglia che diventa straordinaria per la ricchezza di elementi di contorno che l’arricchiscono. Anzi che da soli la costituiscono, confermando che il diavolo si annida nei dettagli.
Amore, vita, rispetto, delusione, rancori, morte, silenzi, silenzi, silenzi, tutto concorre allo svolgimento delle vicende familiari. Più volte saremmo tentati di prendere le pagine pensate da uno dei tre personaggi e farle vedere, leggere agli altri due, affinché capiscano e si rendano conto che c’è dell’altro, che c’è una via, una diversa speranza. Ma né noi, né l’autrice, abbiamo la facoltà di intervenire.
Fundarò registra e trascrive quei pensieri e quelle emozioni che immagina abitino e agitino quelle teste. Potremmo azzardarci a parlare di verismo emozionale.
La definizione di verismo emozionale trova in fondo conferma nella dichiarazione finale dell’autrice che indica le reali persone, a lei legate, che sono diventate personaggi su queste pagine.
Sto costringendomi a trattenere l’impeto di raccontare e dimostrare ancora quello che sto dicendo. Ho preparato numerose citazioni da inserire, ma sarebbe troppo alto il rischio di rovinare l’esperienza di lettura di chi vorrà avvicinarsi a sfogliare questo album di foto di famiglia fuori scena, in forma di romanzo.
E questo sarebbe un peccato imperdonabile.
Per qualche imperscrutabile motivo che andrebbe ricercato professionalmente nelle pieghe della mia psiche, se quest’album di foto fuori scena avesse un carillon, come quelli di nozze anni sessanta, suonerebbe l’opera per quartetto di archi (con un violoncello), La Morte e la Fanciulla, di Franz Schubert.
Provate a leggerlo con questo sottofondo (magari suonato da Rostropovich) e fatemi sapere…