Abbassa la tua radio, per favor
Se vuoi sentire i battiti del mio cuore
Le cose belle che ti voglio dir
Tu sola, amore mio, dovrai sentir
Ormai lo sapete tutti. La mia vita sin dai primi vagiti si è svolta in musica. In casa mia c’è sempre stata una radio accesa, un giradischi in funzione, una voce che canta, un fischio che modula note e melodie.
La radio che usavamo da noi era a transistor, ma a casa di mia nonna c’era quella che sembrava un mobile, in radica di noce, con il pannello delle radio frequenze e, sotto il coperchio, il giradischi.

Come giradischi noi avevamo una valigetta grigia distribuita da Selezione del Reader’s Digest, il cui coperchio superiore si divideva in due altoparlanti stereo, Il giradischi aveva il motorino a quattro velocità, 16 giri rpm, 33 giri, 45 giri e 78 giri. La velocità a 16 giri non la usammo mai: non ho mai visto dischi, o vinili a 16 giri. Per usare i 78 giri avevamo un pacco di dischi vinili pesanti e ingombranti che contenevano un brano per lato, nonostante la dimensione (prevalentemente jazz). I 45 giri erano una montagna, molti duplicati, eredità delle distanti gioventù dei miei genitori: paesi lontani, gusti troppo simili. I primi 33 giri che ho usato erano contenuti in un box blu, distribuito sempre da Selezione che comprendeva dieci dischi con le migliori canzoni del secolo (anche se di quel secolo ne mancava ancora la metà).

Tra le canzoni di quei dischi c’erano le più note, le più classiche canzoni italiane dei primi cinquant’anni del novecento. Canzoni immortali, con ariose melodie, e testi curiosi e intriganti che diffondevano un lessico articolato e sviluppato, che non era consueto ascoltare altrove. Le canzoni italiane che discendevano in linea diretta dall’opera lirica.
Ieri sera al Teatro Massimo della Città di Siracusa abbiamo assistito a uno spettacolo curioso e intrigante. Uno spettacolo dal sapore retrò, ma decisamente coinvolgente. Parlami d’amuri.

Lo ha scritto Costanza DiQuattro, l’eclettica artista iblea che passa dai romanzi, alla conduzione televisiva, al teatro prodotto, e al teatro scritto. L’erede di una casata iblea che il teatro ce lo ha in casa, letteralmente.

Lo porta in scena Mario Incudine, partner artistico insostituibile per Costanza Diquattro. Un artista nelle cui vene scorre il teatro, quello classico, da sacre pietre, e quello moderno e popolare, da palcoscenici legnosi e polverosi. Un artista nelle cui arterie scorre la musica, quella popolare, ancestrale, e quella da ricostruzione filologica, quella da Lithos (la manifestazione di Ferla), quella colta, rielaborata, rimodulata, restituita alla sua dimensione classica (valga per tutti la localizzazione siciliana di Bocca di rosa).

A sostenere le funamboliche acrobazie vocali e musicali di Mario Incudine sul palco c’era Antonio Vasta con le mani su di un pianoforte a coda nero che occupava imponente la parte sinistra della essenziale scenografia, che al bisogno spostava le sue mani abili sulla tastiera di una fisarmonica classica, da fiera, da orchestrina felliniana, da ballo festoso nella masseria alla luce della luna, da salotto di famiglia con grandi e piccini ad ascoltare e ballare.
La regia dello spettacolo è stata affidata alle mani sapienti di sua eccellenza Pino Strabioli.

Lo spettacolo è stato un viaggio scanzonato ed emozionante tra memoria, musica, storia e umanità. Costanza DiQuattro ha trasformato in copione drammaturgico i suoi ricordi musicali degli incontri con una zia molto amata, che suonava e cantava al piano le canzoni più in voga della sua giovinezza. Le canzoni dei dischi del box blu di Selezione che giravano sul mio giradischi di bambino.
Ne è venuto fuori il racconto di un periodo storico della nostra Italia, visto dal sud est di Ibla, il periodo fascista compreso tra Giovinezza e Bella ciao, con la fine della guerra.
Le canzoni utilizzate per legare i vari momenti del racconto sono tra le più conosciute, le più memorabili, e, proprio per questo, paradigmatiche per tutti gli spettatori, a prescindere dalla generazione di appartenenza.
Il valore universale di queste canzoni le rende trans generazionali e quasi tutti gli spettatori hanno scoperto di conoscerle così bene da seguirne i versi riconoscendoli.
È stata l’occasione per riconoscere che queste canzoni avevano un robusto impianto narrativo che riusciva a costruire una storia nei pochi minuti di una canzone. Gli elementi del dramma, della passione, dell’ironia, della sapienza filosofica ed esperienzale umana che caratterizzano una storia, condensati in una manciata di minuti, in maniera efficace e conclusiva.
La grande tradizione del melodramma raccolta e infusa nella canzone.
Attraverso la chiave musicale il racconto andato in scena sul palcoscenico è diventato il racconto di tutti. Ciascuno di noi ha appiccicato episodi, note, aneddoti, ricordi, emozioni, a ogni verso che la straordinaria macchina musicale di Mario Incudine ha modulato, cantato, ballicchiato, interpretato sul palco.

Mario Incudine, da vero e proprio mattatore, ha occupato la scena tutto il tempo, raccontando e cantando in maniera appassionata e appassionante.
Durante lo spettacolo ha anche animato dei pupi che raccontavano la Tosca, ha disegnato con un gesso sulla lavagna la radio di mia nonna, ha dissacrato definitivamente la tragedia intollerabile della mamma che si accaparrava i profumi per sé e disdegnava di comprare i balocchi per la sua piccina.
In qualche momento ha anche coinvolto il pubblico in un canto corale e liberatorio che tutti stavamo aspettando (in particolare durante la trascinante Vivere, la canzone dell’arrifriscu, come l’ha chiamata lui stesso).
La qualità artistica di Mario Incudine ha avuto anche modo di esprimersi in una serrata e ritmata (alla maniera dei cunti, dei cantastorie, dei pupi) declamazione di una poco conosciuta poesia risorgimentale di Luigi Mercantini, il cantore della più nota Spigolatrice di Sapri, Una Madre Veneziana al Campo di San Martino.

Come immagine conclusiva ed emblematica di una serata coinvolgente ed emozionante da cronista riporto la platea illuminata dalle luci del dopo spettacolo, con Mario Incudine che svolazza tra il pubblico e, legando più generazioni, da Ettore Petrolini a Nino Manfredi, trascina tutti al canto di
Tanto pe' cantà
Perché me sento un friccico ner core
Tanto pe' sognà
Perché ner petto me ce naschi 'n fiore

Avete ancora tre sere da oggi a domenica 26 gennaio per regalarvi un emozionante ed emozionato viaggio dentro la vostra musica “oriunda”.
P.S. Nel pomeriggio prima dello spettacolo, alle sei di sera, nell’atmosfera elegantemente retrò del Caffè Almeyda, collegato al Teatro, abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare una arguta, ironica, entusiasmante conversazione di Prospero Dente con Costanza DiQuattro e Mario Incudine. Una idea coraggiosa di Monica Cartia che ha funzionato benissimo e che potrà essere ripetuta con altri spettacoli e altri artisti.

Viva la cultura, scanzonata e non banale, viva la musica, viva il teatro.