Impigliati nel nostro stesso sangue – Col buio me la vedo io di Anna Mallamo – Einaudi

Mia nonna, bambina, è sopravvissuta al terremoto di Messina, e questa storia me la sono già vista con le vibranti, tremanti, pagine di Nadia Terranova.

Mia nonna, maestra più che mamma, che ha insegnato a tanti bambini gli usi corretti della lingua civile, che a noi cugini ha indicato i limiti del parlare severo, di quegli anni sullo Stretto ha mantenuto nella sua lingua, nei suoni e nei colori del suo parlare tracce vivissime che non si potevano nascondere.

La prima emozione che mi ha travolto leggendo il romanzo appena pubblicato di Anna Mallamo, Col buio me la vedo io, Einaudi, è stata proprio nel riconoscere i suoni e i colori del suo parlare.

Fa sempre particolare impressione cogliere questa straordinaria assonanza tra i suoni delle parole di qua e di là dello Stretto. Nella regione in cui pochi chilometri ribaltano cadenze e significati, le due città divise dal mare riecheggiano tra loro il parlare. Sembra davvero che quella lingua appartenga al mare, allo Stretto e non alla terra, e per questo avvolga insieme le teste e i cuori che di quell’acqua si bagnano.

L’unico ponte che serva allo Stretto.

Questo è un romanzo di sangue, fatto con il sangue, scritto con il sangue, impastato con il sangue. Ma non il sangue rosso vivo, copioso abbondante dei film dell’orrore, o alla Tarantino. Il sangue rappreso, bruno, che sa di ferro e di terra, che, anche senza scorrere, lega i corpi e le anime, unisce i tempi e le case, che giace nelle tombe, che guizza negli occhi, che diventa raggia, che sbocca come amuri, che ti si volta contro, che ti sorprende violento come un timpuluni

Il sangue che si riconosce come uno shining. Il sangue che distingue la famiglia, dalle altre famiglie. Il sangue che lega tra loro le famiglie.

Il sangue che dalle ferite non cola, ma si aggrappa al sangue che resta dentro per non abbandonarsi e disperdersi.

Il sangue che condanna, che incatena dentro una famiglia, anche quando non pensi sia famiglia.

Un romanzo di ferite, di tagli, di abrasioni che bruciano, che scavano, che fannu rivutari ‘u sangu, come diceva mia nonna. Ferite e tagli che non si possono incerottare, perché tanto poi il cerotto non dura, non resiste al sangue, alla raggia. Il cerotto si stacca.

Da anni ormai leggo in digitale e penso che questo mi abbia in parte salvato con questo romanzo. Penso che se avessi avuto il libro di carta tra le mani a ogni giro di pagina avrei corso il rischio di sporcarmi, di sporcare la scrivania, la poltrona, il divano, il letto, le lenzuola, con tutto questo magmatico fluido rosso bruno, secco, ma vitale, che fuoriesce da quelle ferite, da quei tagli. Inarrestabile, imperioso, rovente, e al tempo stesso seducente e ingannatore come una lingua biforcuta. Una trappola in cui restare impigliato per sempre.

Un romanzo familiare. Un romanzo che racconta dal di dentro le famiglie, che svela per parabole e paradossi cosa è una famiglia. Un racconto per quadri esposti lungo il cammino accidentato, tutt’altro che una promenade, della protagonista, di Lucia, e a ogni quadro il titolo alla fine con una definizione di cos’è una famiglia.

La danza dei lenzuoli, i silenzi tirati contro, le parole tra cognate, le vistose dolorose preferenze, i dolci contati, la preparazione dei pranzi, le tavole apparecchiate, le gelosie, le nostalgie, le assenze ingombranti, le assenze taciute, i segreti e le bugie.

Un padre che tiene i suoi segreti appiccicati dentro, e si rifugia nelle costruzioni di fiammiferi incollati, come Luca Cupiello si rifugiava nel presepio. Un padre che ama scegliendo e contando le paste della domenica.

Una madre che modula il suo (ri)sentimento con due sole temperature, gelida o rovente. Amore in punta di coltello. Amore imbottito dentro un panino, girato dentro un sugo, ma negato dentro un pacco di assorbenti senza grazia. Con la insanabile passione per il figlio maschio, buco nero in cui si disperde irreversibile il sangue della madre. Una madre da ritrovare con sgomento nelle proprie parole, nella propria voce, e nella propria faccia.

Un fratello più piccolo forgiato a infliggere a tutti intorno ogni suo disagio.

Nonne, zie, zii, amiche, amici, personaggi mitologici della città, completano il palcoscenico dove si rincorrono i pensieri, i ricordi, i sogni, gli inganni di Lucia. I suoi desideri, le sue scoperte, le sue azioni, nella primavera del 1981, tra i sedici e i diciassette anni. In quell’età in cui si prende la forma, si scontorna la propria anima. Quando si ha paura e voglia di scoprirsi come si è. Quando si scopre di avere la mappa sbagliata della propria città, della propria vita, e occorre in fretta ridisegnarsela.

Un romanzo di case e di morti. Di case che vivono, con cui parlare, di case che non devono restare chiuse. Di morti che vivono, finché qualcuno li sa, che rivivono per nostra mano nelle loro case. 

Questo è un romanzo di fimmine.

Non solo perché la penna di questo romanzo è in mano a una donna, non solo perché la figura paterna è rintanata e afona, non solo perché le altre figure maschili restano sempre sullo sfondo, e sembrano pupi agiti da pupare (anche quelle per cui non lo penseresti mai).

Questo è un romanzo di fimmine, perché le femmine sanno avere cura del sangue. I maschi lo sanno solo versare, disperdere, disprezzare. Le femmine lo sanno custodire, tramandare, lo capiscono, lo riconoscono, lo ricordano.

Questo romanzo mi ha fatto sentire incompleto nella mia mascolinità. Ho avuto la netta percezione di perdere tanto nella sua lettura per questo non essere femmina. Di più, ho capito che nel mio romanzo, nella mia vita, non essere fimmina mi ha privato di conoscenze ancestrali, di sensibilità, di intuizioni, di scoperte.

Ma anche in questa mia limitata condizione maschile una cosa l’ho capita. 

Anche se di Anna Mallamo conosco solo quello che scrive e ne ignoro la biografia, anche se ho solo sbirciato voyeuristicamente dentro questo romanzo, ho capito perché questa vicenda si svolge nel 1981.

Perché siamo rimasti impigliati in quegli anni. Quegli anni in cui ci si divideva canzoni e si sapeva a cosa servivano.

Non so perché lei. Ma so perfettamente perché io. 

E questo ha a che fare con mio papà, mia mamma, il mio sangue, la mia famiglia, i miei amici, e quella nonna con il profumo dello Stretto nel parlare. 

Con questo mio buio, però, me la devo vedere io.

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