Tu pierde ‘o suonno ‘ncoppe giurnalette,
e mámmeta minaccia,
e páteto s’arraggia…
Te fanno girá ‘a capa sti fumette,
guardánnote ‘into specchio,
vuoi fare il toreador!
Come fanno a Santa fé,
come fanno ad “Ollivud”…
e cu ‘sta scusa, oje ni’,
nun studie cchiù…
Quando ero bambino questa canzoncina di Carosone mi furriava sempre in testa. Avevo imparato a leggere in età prescolare (neanche quattro anni) e passavo tantissimo tempo a leggere i giurnalette, i fumette, che rastrellavo dall’edicola della nonna.
Mio padre mi ammoniva con questa canzoncina, prospettandomi lo smarrimento, la confusione tra realtà e disegni, inseguendo questo “vizio”.
Ed invero io vagavo tra Paperopoli e Topolinia, inseguendo il nero Tiramolla, in compagnia di Pippo e Pluto, o Cucciolo, o la sgangherata banda del Gruppo TNT.
Il mio rifugio restava però Zagor (quanto erano belle le tavole a colori?), anche se sospettavo che non avrei potuto mai essere più di Cico Felipe Cayetano Lopez Martinez y Gonzales, il suo Sancho Panza.
La sorte non ha dato il tempo a mio padre di insegnarmi a radermi.
Il mio apprendimento autodidatta si basò tutto sulle volte che ne osservavo curioso e temebondo l’armeggiare davanti allo specchio.
In queste sedute di studio a ridotta distanza appresi l’uso di una mattonellina che sembrava di ghiaccio (ed invero passandola sulla guancia rasata rinfrescava) che completava la rasatura lasciando la pelle levigata e voluttuosamente odorosa (secondo me un po’ al profumo di limone, comunque, con quella pietra ghiacciata, la mia guancia profumava del ricordo di mio padre).
Questo strumento antico era l’allume di rocca.
Un portento che i miei compagni non conoscevano, una madeleine di rinforzo paterno per affrontare il mondo.
Il primo luglio per Minimum Fax è uscita il nuovo romanzo di Roberto Mandracchia, Don Chisciotte in Sicilia.
Lillo Vasile, un professore di lettere, vedovo ed in pensione, amante ossessivo dei romanzi di Camilleri che vedono protagonista il commissario Montalbano, scivola dentro questa sua ossessione e si immedesima nel commissario, accompagnandosi ad un venditore ambulante straniero, convinto a forza e a soldi, ad essere il suo ispettore Fazio.
Un amico me ne ha consigliato la lettura, proprio in prossimità del terzo anniversario della morte del Maestro Camilleri, che abbiamo onorato abbondantemente in modo inconsueto, ma risultato efficace.
Da questo pretesto prende il via una storia avventurosa, di amicizia, visionaria, incredibile, con colpi di scena, risvolti polizieschi, e soluzioni ardite.
Un tono costante che accarezza il lettore pagina dopo pagina, avventura dopo avventura, e sfondapiedi dopo sfondapiedi, è rappresentato dalla struggente tenerezza dell’autore verso l’illuso vecchietto, confuso tra la mancanza della Livia di Boccadasse e la Benedetta del suo paese, che lo ha preceduto, lasciandolo solo con la perpetua e la nipote delle due domeniche.
Una stessa tenerezza si adagia su Ousmane, l’ambulante, che, per amore della famiglia, per le ricompense che crede di ricavarne, e per un inatteso, inarrestabile, crescente affetto verso il vecchietto che lo ha coinvolto, si finge Fazio e sostiene il vaneggiare del vecchio.
Un microcosmo fatto di pensionati, di badanti, di paesani, di generazioni a confronto, e di forze dell’ordine incredule, si agita intorno alle manie del prof. Vasile.
Senza perdere la lucidità a sua volta, e senza diminuire la tensione narrativa avventurosa e poliziesca, Roberto Mandracchia orchestra i movimenti di scena di questa vicenda, con piglio e rigore da cineasta.
Unico punto fermo per il nostro sedicente Montalbano l’imprescindibile massaggio con l’allume di rocca. Il segno distintivo degli ultimi barlumi di ragione del prof. Vasile, offerta galante alla sua donna lontana, troppo lontana, irraggiungibile.
Dicono che per misurare la grandezza di un autore, occorra misurarne gli effetti diretti ed indiretti sulla storia della letteratura che lo segue.
Se misuriamo da questo piccolo omaggio rispettoso ed affettuoso alla saga di Montalbano del Maestro Camilleri, possiamo già dedurre quanto fecondo sia stato il suo passaggio, e rallegrarcene per le future evoluzioni letterarie.
Un omaggio indiretto alla felicità narrativa del Maestro di Porto Empedocle.
L’autore di questo romanzo è agrigentino, come della provincia di Agrigento era Leonardo Sciascia che alle pagine di Miguel de Cervantes Saavedra si rivolgeva spesso e con somma deferenza (e quanto gli sarebbe piaciuto questo divertissement di ispirazione al personaggio più noto dello scrittore spagnolo).
Sempre della provincia di Agrigento era il Maestro Camilleri, cui è platealmente offerto quest’omaggio filiale.
Come di Agrigento era lo zio del Maestro, il Nobel Luigi Pirandello, che di un altro vaneggiare, supportato e tollerato per denaro, raccontò nell’Enrico IV.
Forse è giunto il momento di pretendere dalla Regione Siciliana una indagine compiuta ed approfondita sul sottosuolo della provincia di Agrigento. Dovrà trovarsi quale materiale, quale gas, quale pietra preziosa, agita le viscere di quella terra ed insinua nelle menti e nelle penne dei suoi figli questa straordinaria capacità di giocare con le parole, con le storie, con la follia, con la tenerezza, con l’umanità.
La verità è che la vita fuori dai libri spesso è dolorosamente noiosa, senza speranza, senza prospettiva, come per il povero professor Lillo Vasile, vedovo, senza figli, senza altri parenti che una perpetua e una distratta avida nipote.
Quando ci si è immersi nella lettura avventurosa di un romanzo, in cui la vita offre spunti e prospettive meravigliose, come si ritorna dentro la propria vita?
Meglio massaggiarsi la guancia rasata con l’allume di rocca, profumarsi di ricordi e speranze, uscire di casa, cercare il proprio Cico, più o meno riluttante, e addentrarsi nella giungla al grido di “Ayaaaak!”, rituffandosi dintra ‘e giurnalette…