Antivigilia di Natale.
Per anni da bambino mi sono arrovellato sul perché avessero deciso di chiamare il 23 dicembre l’Antivigilia.
Non mi era ancora chiara la funzione anticipatoria, di precorrenza temporale, del prefisso anti. Lo leggevo in chiave di contrapposizione: la Vigila e l’Antivigilia che si fronteggiavano per ottenere il favore del Natale.
L’Antivigilia del 1965 non posso ricordarmela, me l’hanno raccontata, tante volte.
La clinica, le infermiere, i panettoni portati all’ora di cena da mio padre, il precipitare degli eventi, il medico disturbato a un tavolo di poker vincente, la mia nascita in tempo per aggiungere il nome Vittorio al nome del nonno.

Il poeta è quella persona che conosce la magia delle parole, che conosce gli intrugli, sa maneggiare gli alambicchi delle parole. Colui che sa dare forma ai tuoi pensieri, quei pensieri che ti rombano nella testa e nello stomaco, che ti risalgono inopportuni come i peperoni dopo cena, che ti attraversano ferendoti come lampi nel buio della notte, che ti riportano a luoghi e momenti desiderati, o massimamente indesiderabili.
Che ti danno gioia, dolore, e gioia dolorosa, o dolore gioioso.
Ma che tu non sai fermare, formare, trasformare in parole.
Non le sai scolpire nel marmo della memoria, dove resteranno come monito, indirizzo, guida, salvezza.
Un poeta lo riconosci da questo.

Alessandro Piccione ha scritto:
Estenuante nascere quasi a Natale
Un verso di una poesia che contiene molte altre figure che risuonano:
Le scarpe rotte, in piena antitesi con la sua giovane età.
Abbiocco del sole, pure nel punto più vivo del giorno.
La figura di un bambino che quando ha bisogno di ripulirsi le mani dalle sue esperienze di esplorazione, di ricerca, di scoperta, di illusione e magia, sa che può sempre passarle sui jeans di papà, che raccoglieranno tutte le scorie ridonandogli la libertà di cercare ancora, di sognare ancora, di vivere ancora.
Ma quel verso sulla nascita a Natale, la scelta di quell’aggettivo, estenuante, manco fosse una verde milonga di Paolo Conte, l’uso di quella parolina fulcro di ogni incompletezza, di ogni insufficienza, quasi, parlano a me, solo a me.

Eravamo un centinaio sospesi tra mare e bellezza, tra storia e memoria, nella terrazza Killichè, ma Alessandro ha parlato a me.
Mi ha guardato dentro l’anima e mi ha detto che mi riconosce, che conosce quella sensazione di essere quasi, di essere sopraffatto dalla vita degli altri, dalla esigenza degli altri di festeggiare il proprio ritorno alla grotta della propria nascita, di non curarsi della tua di nascita, della tua voglia di centralità, di soffiare tu le candeline, solo tu, come fanno gli altri che nascono ad Aprile.
Per non parlare della fregatura del regalo: ti abbiamo fatto un regalo più grosso per il compleanno, vale anche per Natale.
Potrei chiudere qui questa riflessione sulla silloge di Alessandro Piccione, Tazzine sparse, edizioni Killichè.
Basterebbe questo per indicare al mondo con la piena soddisfazione che merita, questo grido di un Moravia a segno invertito:
È nato un poeta!
Ma ci sono più di sessanta poesie che riempiono queste pagine, sessanta opportunità di sentirsi scoperti, spiegati, perdonati.
E circa sessanta fotografie.

Perché questo sono le sessanta poesie, fotografie, scatti di moti dell’anima, istanti di vita, di bellezza, di dolore, sensibili ritratti, spiati dietro uno sguardo sornione, apparentemente distratto, di chi sembra che guardi altrove, e invece sta guardando te, si proprio te, che passi per la via, che ti tuffi dalle pietre, che guardi da una finestra, pensando di non essere vista.
Combinazioni di luce e combinazioni di parole, effetto identico.
Il disvelamento, la rivelazione, la denominazione di un sentimento, di altre emozioni, che non potranno più essere denominate altrimenti.
Avete ancora bisogno di altro, di altri esempi?
C’è solo l’imbarazzo della scelta tra queste tazzine sparse, una ricerca intrigante, appassionante, a tratti dolorosa, quella di esplorare tutti i fondi residui di queste tazzine sparse.
Un piacere che lascio ai tanti fortunati che si troveranno tra le mani questa silloge per perdersi dentro questi scatti e queste parole, per uscire da questo labirinto più consapevoli, più sicuri, più degni del proprio miracolo di vivere.
Questa è infatti la chiave di Alessandro Piccione, restituire all’umanità il bene prezioso che ha ricevuto in dono, vivere, vivere nella bellezza, vivere nella bellezza con la consapevolezza di vivere nella bellezza, di saperla riconoscere, valorizzare, meritare.

Vi aggiungo solo alcune riflessioni più sentite di altre, solo più urgenti da riferire, e vi lascio il piacere e la gioia di scoprire le vostre, i vostri quasi estenuanti.
Mi metto a guardare il mare
Svogliata e inesorabile
La luce si scioglie
Tra le palpebre di un viso ancora sporco
Da una notte di solitudine
Per ricordarmi che il giorno nasce anche senza di me
Mi alzo, e mi metto a guardare il mare
Quando è mosso, e quando è calmo.
Voglio l’orizzonte che non vedo
Sento la musica che non conosco,
Ma mi rifugio in quei soliti accordi
E guardo sempre lo stesso porto
Dico di amare il vento
Ma poi nascondo i miei capelli dall’incontro
Il mare, la musica del mare, il movimento del mare.
Alessandro Piccione riconosce che guardare il mare è di per se attività terapeutica, forse la vera e incompresa talassoterapia.
Questa luce che nasce indifferente, che scioglie i residui di solitudine tra le palpebre. Non si è mai soli se si può guardare il mare.
Non importa se lo sguardo si posa sempre sullo stesso porto, se la musica è fatta dei soliti accordi, il mare è sempre il mondo intero, è sempre la sosta dell’eroe, la sosta preferita.
Non si lascia sconvolgere dalla furia del vento, così il poeta non si lascia trasportare dal vento. Lì rimane, sullo scoglio, sulla pietra a leggere il libro sempre nuovo che scrive il mare.

Ho visto un’alba che era un tramonto
E pensare che se fosse l’ultimo giorno del mondo
Dovrei andare a vedere il mare
Per chiedergli come fa
A incastrarsi così bene
Tra l’inizio e la fine
Delle cose
Ancora il mare. La risposta.
Dylan si sbagliava, revocategli il malvoluto Nobel. Il mare ha la risposta, non il vento. Il mare sa incastrarsi così bene tra l’inizio e la fine delle cose.
Da ragazzi si fanno spesso questi giochini scemi, pre social. Cosa faresti se avessi solo un minuto di tempo prima di morire, prima della fine del mondo? Le più varie e maliziose risposte si alternano per dimostrarsi, per distinguersi, per essere romantici eroi, come Ranieri che conosce dove correrebbe se bruciasse la città.
Il poeta non disperde l’occasione. Al mare chiederebbe, dal mare saprebbe, dal mare impara come si sta al mondo.

Vi ho visto camminare
La gente di spalle prende vita
Visti di spalle sembriamo uguali
Immagini volti che non puoi guardare
Immagini volti che parlano soli
E cercano il mare
Ve lo avevo detto già prima. Alessandro Piccione ci guarda, ci osserva, come un gatto dal cornicione di fronte.
È svagato, apparentemente.
È concentrato su qualche particolare, apparentemente.
È con lo sguardo diretto altrove, oltre, apparentemente.
Invece ci sta guardando, ci sta studiando, sta ricamando sulla nostra schiena il tappeto della nostra vita, la nostra carta natale, astrale.
Si prepara a cantarci la nostra vita.
Credo che dopo questa pubblicazione, sarà costretto a camuffarsi, a nascondere la sua macchina fotografica, se vuole ancora rubarci l’anima, se vuole ancora impunemente denudarci, se vuole ancora inseguirci mentre cerchiamo il mare.

All’inizio del giorno
Dentro i tuoi occhi
La mia città ha una luce tragica
Salsedine d’inverno
Salsedine nostalgica
E le barche ballano senza la musica.
Piccioni mascherati da silenziosi guardiani
Tra sintomatici atti di libertà
Sorvegliano cene di scarti
E per colpa di questi stormi nel cielo
Non ho ancora avuto il tempo
di dimenticarti.
La nostalgia.
Parafrasando Crespi, Alessandro Piccione stesso ha parlato di “Bellezza della Nostalgia”. Tutte le pagine, tutti i versi di questa silloge sono intrisi di nostalgia, celebrano la bellezza della nostalgia.
Anche la salsedine che non conosce le stagioni, d’inverno è nostalgica.
Una nostalgia del mare, dell’isola, della terrazza, delle pietre, delle donne e degli uomini, delle emozioni, dei sapori, della musica, dei gesti che fanno viva questa terra.
Una nostalgia tutta poetica, tutta fatta di parole e immagini, non di fatti. Il poeta non lascia questa terra, la ama, la vive, la assorbe, la assimila, non ne spreca una goccia. È sciolta in ogni goccia del prosecco che beve, in ogni frutto che sbocconcella, in ogni fiore che odora, in ogni sguardo che incontra, in ogni caffè che prende, lasciando la tazzina in pegno al luogo e al momento.
Ho conosciuto questa nostalgia. L’ho vista agitare l’anima di papà. Ne ho sentito il sibilo del taglio a carne viva che procurava a lui.
Ho chiesto ad Alessandro Piccione di spiegarmela lui questa nostalgia di chi non parte, di chi non lascia, di chi non si separa.

Se uno è poeta non lo è a caso.
Piccione ha usato un’immagine folgorante per spiegarmela, un altro benemerito e prezioso estenuante quasi che mi ha regalato.
Mi ha parlato del sole che scende lungo la sua traiettoria verso il tramonto, del tempo infinito – apparentemente – che ci mette a raggiungere l’orizzonte, del tempo istantaneo – apparentemente – che ci mette a sparirvi sotto e lasciarci nel buio.
In questo momento, senza che noi possiamo fare alcunché per fermarlo o rallentarlo, sta la nostalgia dei poeti, la nostalgia di papà, la nostalgia degli uomini che sanno riconoscerla.
Inconsapevolmente, ma con il suo tratto poetico, Rita, la fotografa che questo blog non si merita, ha fissato in questa foto qui sotto, il senso delle parole che Piccione, il poeta Alessandro, mi ha regalato.

Troppo affetto e troppo rispetto mi legano a Pucci Piccione, ma devo trovare la forza di contraddirlo e pubblicamente.

No. Non si può sorseggiare il caffè e poi riporre la tazzina nel lavello – una per volta o tutte insieme. Le tazzine devono restare sparse, devono segnare il passo, il cammino, devono fare da aria alle ali della creatività poetica di Alessandro. Da quei caffè, dai fondi di quei caffè, dalle dislocazioni randomiche e imprevedibili di quelle tazzine nasce la poesia.
E Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di poesia, sa quanta poesia ci serve per affrontare i nostri quasi estenuanti.
Non ci privare della poesia per quattro o quattordici tazzine sparse per casa.
Ognuno di noi tributa un sacrificio alla bellezza, questo è il tuo.
Te ne saremo per sempre grati.
