Inevitabilmente da quando ho fatto quella riflessione su mio padre e la musica oriunda mi capita spesso (più spesso del solito) di sentire risuonare nella mia testa musiche di quel tempo, in riferimento a fatti o notizie che incrociano la mia giornata.
Così è accaduto con l’aria di Bizet Mi par d’udir ancora. Ascoltata con papà tante volte con la voce del grande Beniamino Gigli.
Questa aria dell’opera I pescatori di perle, ha un andamento molto patetico, molto sentimentale. Avvolge l’ascoltatore e lo spinge a dondolare. Se non tutto il corpo che potrebbe esser imbarazzante, almeno dondolare la mano destra, facendola roteare in senso antiorario all’altezza della testa, per rappresentare a chi sta intorno la misura del godimento provato ascoltandola.
Mi par d'udire ancora
Ascosa in mezzo ai fior
La voce sua talora
Sospirare l'amor
Nel testo non fa riferimento al mare. Neanche nei momenti più licenziosi (è un’opera francese) quando recita:
La ved'io d'ogni velo
Render libero il sen
Però di pescatori parla, di pescatori di perle, quindi il mare è immanente su tutta l’opera.
Infatti questa opera giovanile di Bizet, arricchita di tanti elementi esotici, ma di scarso successo, suona come il mare. L’aria più famosa (una delle poche cose che si salva dell’opera) risuona a onde, proprio come una risacca. Forse per questo spinge istintivamente a quel gesto della mano, come fosse un remo che asseconda il moto del mare.
L’occasione per questo ricordo musicale è stata la lettura del libro Il Sentimento del Mare di Evelina Santangelo, pubblicato da Einaudi.

Non solo perché in un momento fa riferimento proprio alle donne del mare del Giappone, le Ama, le pescatrici di perle, ma perché a quel lirismo, a quello struggimento tutto il libro mi ha rimandato.

Pur avvincendo e legando il lettore alle pagine, Il Sentimento del Mare non è un thriller, non è proprio un romanzo. È una riflessione tra sé e sé, un articolato flusso di coscienza, un viaggio più interiore che effettivo verso il mare, dentro il mare, intorno al mare.
Il mare come idea platonica, il mare come frammento di memoria, il mare come pilastro del paesaggio emotivo.

Le donne di mare hanno un posto speciale in questa riflessione.
Tra fame e fatica, il lavoro a mare non conosce pause, né puerperio.
Anche la sopravvivenza dei bambini è una lotteria.
In un collegamento a contrasto con Le onde del destino, scrive così:
“Si faticava di giorno e di notte. E si sgravavano figliolate. Questo dicono le voci dei figli che raccontano delle madri di cui nessuno ha piú memoria, nemmeno le donne.
Donne che, a vederle nelle foto d’epoca, hanno figure asciutte, nemmeno cosí robuste. La pelle cotta dal sole. Sono spesso piú grandi di diversi anni degli uomini che hanno sposato. Non trasmettono nessuna fragilità. Un lusso che non potevano permettersi.”
Una cosa che mi ha sorpreso durante gli anni dedicati alla ricostruzione dell’albero genealogico della mia famiglia è proprio il grande numero di bambini che non superano i pochi mesi o anni di vita. Una cosa a cui erano abituate quelle donne di mare, di tutti i mari, non solo le donne delle Eolie e delle coste di Sicilia che Santangelo racconta.
Donne non donne, mamme non mamme, solo corpi da usare per lavorare e procreare.

Il mare suona. Il mare risuona, canta, mugghia, fischia. Altre donne del mare, di altri paralleli, vengono raccontate (come le pescatrici di perle, appunto). Vengono raccontati anche i pesci, capodogli, orche, squali, ma non ci sono sirene in nessuno dei mari che racconta Evelina.
Santangelo racconta anche del contrasto tra ieri e oggi. Racconta cosa cambia, cosa resta uguale. Le donne e mamme che soffrono l’ansia e l’attesa a riva dei propri cari per mare.
Ritorna alla mente un’altra melodia. Quella di Renato Carosone che esorcizza la paura con il giochino del mare crudele e della barca che tornò sola.
Così nelle pagine di Evelina Santangelo incontriamo la mamma di oggi che trepida come ieri per l’attesa, ma oggi sul suo smartphone segue la navigazione con la nuovissima app appena scoperta.
Il mare è ancora crudele, ma le tecnologia smussa alcuni spigoli.
Questo viaggio è come un cannocchiale all’incontrario, che consente di allontanare oggetti, sentimenti, emozioni, per guardarli meglio, per reggere meglio la loro vista.

Con questo espediente Evelina Santangelo compie una evoluzione della ormai imperante autofiction. Raccontando di luoghi e personaggi di questo viaggio per mare (ma potrei usare tutte le preposizioni e andrebbero ugualmente bene, di a da in con su per tra fra) l’autrice racconta delle sue storie. Meglio, dà in pasto le sue storie alle esigenze narrative, esplicative, interpretative. Malattia, fine di un amore, figli e figlie, padre. Questo strumento narrativo opera una trasformazione.
La narrazione privata diventa paradigma della narrazione pubblica. Il Paese emerge dalla memoria, dalla coscienza. Ne viene fuori il racconto di un clima politico, sociale, economico.
Infatti, il mare che circonda la nostra isola è anche un mare che ribolle di rabbia, si macchia di sangue, è teatro di vigliaccherie disumane e di straordinari gesti di solidarietà.

Per dipingerlo Evelina Santangelo ne raccoglie un racconto dal comandante Vincenzo Cascio, della Capitaneria di Porto di Mazara del Vallo.
“C’è voluta un’ora per arrivare a un resoconto esatto, rigoroso, capace di contenere nella forma squadrata del linguaggio quel che le parole finali rivelano: l’indicibile.”
Già solo per questo motivo il libro di cui stiamo parlando è meritorio: prova a raccontare anche l’indicibile.
Un posto tra le righe lo trova anche Calipso.
Ma Calipso non è più una ninfa, una creatura letteraria o mitologica, la donna dagli amori non corrisposti. Calipso diventa Super. Una muta che dà il via ai giorni felici, ai giorni della gioia. La muta Super Calipso offre a Santangelo l’opportunità di parlare anche di un mare nemico, ostile, o almeno indifferente. Un mare da cui guardarsi le spalle, da non sfidare mai.
Alcune preziose pagine sono dedicate a un nostro eroe dalla pelle salata, un mito delle scogliere della mia città: Enzo Maiorca.

Tra le storie di questo libro si staglia con nettezza la storia di Salvatore, il cugino. Provando a evitare fastidiose anticipazioni che priverebbero coloro che ancora non lo hanno letto del piacere della lettura, diciamo che le pagine dedicate al cugino Salvatore sono la ricerca di un come, per trovare un perché. Un altro paradigma per un altro sentimento.
“Ricordo la gioia di avere il mosto appiccicato alla pelle, i pantaloni imbrattati di terra e uva, e la gioia di sentire il pesce lasciarmi scaglie ovunque, sopra quell’appiccicaticcio salmastro che si sperimenta solo in barca insieme al rumore assordante del motore e al fetore di nafta. Me lo sogno la notte quell’odore dolciastro che, quando si mescolava con la calura del sole alto e con l’ondeggiare del mare, dava una nausea che sballava i pensieri, intorpidiva la mente. E c’era soltanto un sole sempre piú acceso che faceva il mare di un brillio guizzante al primo mattino, e pesce da smagliare all’altezza del miolo (un cilindro a poppa dove si tira la rete) e da lanciare sui currituri (i corridoi lungo le due estremità della coperta), c’era il verricello (che aiutava a salpare meccanicamente la rete) da tenere sotto controllo, perché non ci finisse frantumato dentro un pesce, e intorno tutto uno schizzare di code, di corpi affusolati brillanti, un precipizio di schegge di sole ovunque, e c’erano chiazze, squame di mare che si allargavano man mano come olio sulla superficie dell’acqua, mentre il sole si faceva sempre piú alto ed era ora di ritornare, stanchi di una stanchezza da sfinimento tutta concentrata sui capelli spettinati, duri di sale, selvaggi”
Questa lunga citazione ci offre una chiave di lettura di questo libro salmastro, di questo libro con rollio incorporato.
La gioia è un sentimento epidermico, fisico, una sensazione meglio. Non è uno stato, non è un processo. È sensuale, si odora, si tocca, si assaggia, si sente.
Che sia questa gioia, questa sensualità, Il sentimento del mare?

Mi permetto in conclusione una parentesi.

L’autrice di questo libro all’odore di mare, è anche una provetta editor del mondo Einaudi. Tra le tacche nel suo aeroplano può vantare una operazione editoriale di grandissima valenza culturale, e di altrettanto grande rischiosità e scivolosità (proprio come uno scoglio pieno di lippo).
Grazie alla sua cura, al suo impegno, al suo lavoro i lettori italiani hanno potuto leggere qualcosa che altrimenti non avrebbero mai potuto leggere: Terra Matta di Rabito, la trasformazione in libro del diario sgrammaticatissimo di un analfabeta. Un vero capolavoro. Unico e inimitabile.
Una grande editor, quindi, che affronta in proprio le onde delle pagine.
“Intanto andavamo a ruota libera, a ondate di discorsi che ora si incrociavano ora si perdevano in lunghe digressioni. ”
La conversazione delle donne e degli uomini che sono nati e vivono vicino al mare assume la forma del mare, il suo movimento, la sua ondosità.
Anche la scrittura di Evelina Santangelo fa come il mare, come quella bidduzza che non si vuole decidere ad accettare l’offerta d’amore (comu l’unna, bidduzza nun fari…).
Per scrivere del mare, bisogna muoversi come lui, a onde, assecondandone il moto. Come fa Evelina Santangelo. Come fece Bizet nei Pescatori di perle, nell’aria Mi par d’udir ancora, che vi lascio come commento musicale a questa lettura.