La notte del dì di festa (19 marzo) – Invernale di Dario Voltolini – La nave di Teseo

A volte capita.

Qualcosa ti sveglia, un pensiero, un colpo di tosse, un messaggio. Tu stavi dormendo e non dormi più.

Se poi capita nella notte che precede una festa, con il suo strascico di telefonate che non riceverai, che non farai perché a quei numeri ormai non rispondono più, è difficile che il sonno ricominci.

Quando capisci che ormai la notte è andata, anche se mancano ancora ore alla sveglia, ti ricordi che per fortuna la riserva di libri virtualmente sul comodino è sempre alta e non deflette mai.

Guardi le copertine, i colori, le figure, i tratti più o meno accattivanti. Autori che conosci bene, che comunque non vuoi sprecare in una notte che non sai come va a finire. Autori che non conosci, ma che hai scelto per qualche motivo, che magari ora non ricordi neppure.

Una copertina tutta rossa, un rosso cupo, digradante, non di gioia, né di sangue vivo, come di sangue rappreso. Sul rosso si staglia una interrogativa faccia di agnellino.

Ricorda un quadro della casa di mia nonna che ricollego non so perché a Giovanni XXIII. L’espressione dell’ovino mi interroga, mi suggerisce ricordi.

La Pasqua incombe. Ricordo le Pasque di millemila anni fa, quando con sincera amicizia e devozione, c’era sempre un pastore che portava in casa un agnellino vivo, o un capretto, che voleva a tutti i costi uccidere in casa nostra per poi scuoiarlo e prepararlo in pezzi da cucinare sempre qui da noi, tra l’orrore mio e il disgusto di mia mamma, e la recalcitrante, ma cortese adesione di papà.

Ecco vedi. E’ già San Giuseppe a quest’ora. Festa del papà. Domattina sarà un tripudio di auguri, messaggi, post sui social, richiami tra terra e stelle, lacrime (a volte di coccodrillo) in piazza. Questo libro mi ha riportato papà per qualche momento, si merita una possibilità.

Invernale di Dario Voltolini, La Nave di Teseo.

La prossima notte sarà l’equinozio, ufficialmente e in carrozza arriva la primavera, salutiamo l’inverno e questa strisciante bronchite che resiste, con un libro che si chiama Invernale. L’autore non lo conosco, sicuramente una mia mancanza. Me ne occuperò dopo, mi informerò e vedrò cosa mi sono perso.

Attraversiamo la notte con questa lettura:

“Soprattutto il sabato il mercato è preso d’assalto da una massa di persone. Ci sono folle nelle corsie, non si passa. Di fronte a ogni banco uomini e donne si spingono e parlano forte. Sembrano una versione insurrezionale della Borsa di Wall Street. Dentro i banchi dei commercianti con furia si accelerano i movimenti, per servire tutti il prima possibile. C’è una danza lì dentro, con persone a loro volta in massa, che devono prevenire le traiettorie dei movimenti uno dell’altra, una dell’altro. ”

Non so ancora di che parla questo libro, ma questi movimenti di parole e di corpi che gli danno inizio mi attirano.

Andando avanti scopro la funzione dell’agnello in copertina: la voce che racconta, parla di un macellaio di quel mercato, racconta del suo rapporto con il lavoro, con la carne, con il taglio, con la cura della carne, dei clienti.

Un curioso modo di raccontare. Il racconto è un flusso, ma non di fatti veri e propri, cioè ci sono pure quelli, ma più che i fatti racconta gli stati d’animo e le emozioni del macellaio, mentre avvengono le cose. Mi fa pensare al jazz. Quando i musicisti, dopo aver esposto il tema, lasciano ai singoli strumenti lo spazio per gli assoli, mentre chi non fa l’assolo, espone in modo laterale il tema. Non lo espone davvero, ma non lo fa dimenticare. Tiene il tempo, tiene in memoria dell’ascoltatore, la scala, o gli accordi, ma non suonandoli direttamente, ricordandoli, evocandoli, non saprei descriverlo diversamente.

Così la scrittura di questo lungo racconto, o breve romanzo, si dipana attraverso brevi capitoli, ma senza una vera e propria soluzione di continuità, come una sessione jazz in piano solo, dove la sinistra tiene fermi i parametri, non ci fa dimenticare che parliamo di un macellaio di Torino e di suo figlio che ne racconta gli ultimi anni, e la destra ci porta dentro la mente, l’anima, la memoria, la coscienza del viaggio di questo macellaio.

Papà aveva una passione smisurata per il calcio, lo amava, lo seguiva, lo giocava. In gioventù fu pure tesserato e protagonista di alcune stagioni d’oro dell’Amaselo, la squadra del suo paese, dove, ancora oggi che avrebbe 93 anni, c’è un bar con il poster di quella formazione che lo vedeva terzino. Papà era però un bravissimo portiere, ingannato da una precoce miopia che lo portò in difesa. Leggende narrano che da ragazzino fosse una sorta di giovanissimo protetto da Zoff, che pare gli avesse pure regalato dei completino e dei guanti.

Anche il macellaio di questo libro ha una straordinaria passione per il calcio giocato, lo gioca propio, ha conosciuto Sivori, ha maturato una conoscenza delle cose del pallone che gli consente di interpretare le partite in tv con una sapienza sopraffina e intuito non banale. Per la voce del racconto vedere insieme a lui quelle partite storiche che tutti abbiamo visto è una vera propria esperienza. Gino si chiama il padre. Gino è una fonte di perizia, di esperienza, di intuizioni per la voce, proprio come era per me vedere le partite con papà.

Fu indimenticabile per me un pomeriggio di primavera di or quasi mille anni fa, quando papà nel maldestro tentativo di accompagnare uno sportello di auto verso la chiusura per galante cortesia verso l’ospite che si era seduto dentro, si fece saltare di netto il mignolo della mano.

Anche Gino in un momento di disallineamento tra occhi e braccia e mani si fa saltare un pollice. La corsa in ospedale, le vicende lunghe, le operazioni, le ricostruzioni, il ritorno a casa, tutto raccontato in questo ormai familiare modo jazz, risuona dentro di me di quella primavera che nel frattempo divenne estate prima che mio padre recuperasse l’uso del dito.

Detto così, sembra che siano i fatti similari a fare questa risonanza tra Gino e Tanino (mio padre). No, non sono i fatti. È proprio il modo di raccontare, il modo di fare emergere in primo piano le emozioni di Gino e di suo figlio, la voce, rispetto ai fatti, che risuona. Forse i dettagli dei fatti sono davvero diversi da quello che ho pensato, o da quelli che ho vissuto e ricordo, ma la musica che li accompagna no. La musica è quella. E’ la musica che mi fa entrare e uscire dai miei ricordi, che sovrappone Tanino a Gino.

Certo c’è un comune riferimento generazionale.

Se leggo questa frase non posso che ripensare alla copertina del 45 giri e alle risate e alle cantate a squarciagola con la mano destra che fa mulinello accanto al capo per rappresentare l’estasi dell’ascolto.

“E molto tempo prima, nella pausa tra la fine della giornata di lavoro e la cena, mettere su Speedy Gonzales versione Peppino di Capri e fare un po’ di ginnastica twist (again) con il figlio, che era piccolo, nella stanzetta sua.”

C’era sempre della musica accesa in casa mia, radio o montagne di 45 giri.

Oppure se leggo questa frase, quasi distaccata dal resto del periodo, non posso non risentire l’angoscia del genitore, che aveva rischiato più volte la pleurite, per i sudati allenamenti e la mancanza di coperture adeguate o di riscaldamenti in casa, in un paese di alta collina, che era sempre molto preoccupato del mio sudore, della mia protezione, anche al di là del ragionevole.

“non fare corrente! non stare nella corrente! chiudi quella finestra, ché fa corrente”

Il racconto continua, insegue il suo destino, che ormai ho capito. La voce sta raccontando in jazz come possa un uomo forte e vitale, colonna della sua famiglia e del suo prediletto adorato figlio, perdere aderenza, essere scavato dentro, indebolito e fiaccato fino alla morte. L’altra mano sul piano sta suonando contemporaneamente, su altra chiave diversa, ma in perfetta assonanza, come nasce un orfano. Sta sviluppando proprio quel bagaglio di emozioni adolescenti che costituiranno lo zaino che la voce si porterà per sempre sulle spalle.

L’ho scritto più volte, e lo penso davvero: esiste una orfananza per cui gli orfani ci riconosciamo. Sempre, anche senza dircelo, anche senza saperlo. Questo libro così si è infilato nella mia notte prima della festa.

Ora ricordo perché fu aggiunto alla colonna virtuale del comodino. Era stato candidato allo Strega tra gli 82 e mi avevano colpito titolo e copertina. Non avevo ancora letto la motivazione del proponente:

Ci sono libri così belli da sbalordire. Cos’hanno in più degli altri? Magari l’autore ha già scritto altri libri molto belli, è una figura nota, apprezzata, i suoi punti di forza sono ben conosciuti e la qualità della sua scrittura non dovrebbe sorprendere nessuno: eppure in quei libri lo fa, sorprende, sbalordisce. Perché? Perché tutt’a un tratto sembra che quell’autore sia nato per scrivere quel determinato libro, e che tutti gli altri che ha scritto prima non siano stati altro che un passo per arrivare a scriverlo? Io non so rispondere a queste domande, ma so che ogni volta che apro un libro, ogni santa volta, in cuor mio spero che si tratti di uno di quei libri, così da ritrovarmi ancora una volta sbalordito per la bellezza e confuso in questo mistero. “Invernale” di Dario Voltolini è uno di quei libri. La bravura di Voltolini è nota. La luminosità della sua scrittura è nota. La genialità del suo modo di raccontare il mondo è nota. Eppure nessuno dei suoi libri precedenti mi aveva sbalordito come questo – ed è per condividere il mio sbalordimento che ho deciso di presentarlo per l’edizione 2024 del Premio Strega.

Il proponente è Sandro Veronesi, Strega due volte, come i sorsi necessari per capirlo.

Non è un’anticipazione, perché, come ho già detto, non sono i fatti il cuore di questo romanzo, ma i pensieri, le emozioni, i fili che li tengono. Così non è una anticipazione raccontarvi il sobbalzo davanti a queste righe:

“e estraggono la barella, e ci sono dei passanti e dei condomini, e lui è sulla barella, lui è morto.”

C’ero solo io quel giorno al portone, non c’era Voltolini, Dario come ora sappiamo si chiama la voce. Ma è come se ci fosse stato anche lui.

E poi ancora, dopo le pietose cure, con la casa con la porta aperta, ma ancora non raggiunta dal flusso incessante venuto a sostenere, a meravigliarsi, a rimpiangere, a piangere, a sentirsi vivo, a vedere di nascosto l’effetto che fa.

“Lui è steso, immobile, ancora riconoscibile. Per ciascuno il lutto è proprio, non c’è chi si avvicini a un altro o a un’altra per abbracciarlo o consolarla, ognuno ne avrebbe bisogno ma non riesce a fare quel gesto nei confronti altrui”

Quel momento di cristallo, quel momento di rallentamento, di sensazione di straniamento, di incredulità, di dolore così grosso e ingovernabile che non ti puoi permettere di frantumare la guaina che lo sta faticosamente trattenendo, abbracciando o essendo abbracciato.

Questo fanno quel certo tipo di libri che dice Sandro Veronesi. Vengono e ti raccontano la tua storia, cosa hai provato, come ne sei uscito e come ce l’hai fatta, se ce l’hai fatta…

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