
Una volta si definivano i bancari come le figure più noiose, grigie, e pedanti tra tutte.
Una grande banca (di interesse) nazionale addirittura si vantava di essere una banca in doppiopetto grigio, che certo se il doppiopetto era indossato da Miss Universo, poteva anche andare bene.
Tutto cambia e tutto si evolve, ai tempi nostri così fluidi e confusi, non è raro trovare tra i bancari molti artisti, scrittori, musicisti, poeti.
Uno di questi è certamente Arturo Belluardo, siracusano di nascita e bancario, che questa estate ha dato alle stampe con Giulio Perrone Editore il suo terzo romanzo, Ballata per la sirena.

Un romanzo, il cui andamento della storia, della narrazione, è febbrilmente rapsodico, è jazz puro, free jazz, come quello di Miles Davis, opportunamente citato nel romanzo stesso.
Il pretesto per le improvvisazioni letterarie sulla pagina è alquanto semplice.
Un avvocato romano piccolo borghese, con tutti i difetti dell’italiano medio, è costretto a tornare alla sua città, Siracusa, per l’imminente morte della madre.
Da questo ritorno, comunque tardivo, nasce un processo di evoluzione e rivoluzione del personaggio dell’avvocato, che attraversa tutto il romanzo, e tocca numerosi ambiti, offrendo altrettanti spunti di riflessione al lettore.
Possiamo definirlo un romanzo di endiadi, come le chiama lo stesso autore.
Amore – colpa
Nei rapporti tra genitori e figli, uno dei rapporti più maledettamente complicati, sia che si rivesta il ruolo di figlio, che si rivesta il ruolo di genitore.
Nei miei momenti di difficoltà, di depressione, non avevo mai telefonato ai miei genitori: erano solo capaci di amplificarli l’ansia o di incazzarsi con me (quello mio padre). Niente idee, niente psicologia, solo soluzioni pragmatiche e quindi implicitamente tragiche. O colpi di bisturi non disinfettato.
Madre – Dura e pia
La duplice natura della maternità, sinteticamente racchiusa nella definizione biomolecolare delle due meningi del cervello umano.
La scorza dura, protettiva, esigente, necessariamente respingente.
L’essenza della dolcezza, della cura, del sostegno, del nutrimento.
Amore – rancore
Il rapporto con la città, con i cittadini, amata e amati, senza misura, ma irrimediabilmente colpevoli degli stupri, della violenza cieca, con cui si distrugge la bellezza.

Un romanzo di sirene, dove le sirene sono protagoniste, sono origine e destino.
L’esplicito riverente omaggio che Belluardo fa a Lighea di Lampedusa è una carezza per la mia anima, abbastanza strattonata da questo romanzo. Anch’io ho amato quel racconto che ha influenzato in maniera prepotente la mia prima novella scritta in adolescenza.
In questo romanzo la sirena, le sirene, sono un simbolo femminile di grande impatto. In un momento molto drammatico l’autore ci rivela che non è il canto ad affatarci, ma l’odore. L’odore di bagnato, di umido, di alghe, di sesso.

Il sesso, appunto, in questo romanzo è protagonista indiscusso.
Ma le allucinazioni sessuali del protagonista non hanno nulla di felliniano, nessuna malinconia nostalgica, non hanno l’esuberante gioia del sesso di Tinto Brass.
Il sesso è violento, è morboso, è cupo, istinto animale a cui non ci si può sottrarre, è una forma di dolore, di gestione del dolore, di trasferimento del dolore.
La rappresentazione cruda, violenta, del degrado in cui si muovono i protagonisti del romanzo, il losco innominato avvocato, soprattutto.
Ma non solo.
L’idea di sesso che si diffonde sul web è così ridotta. Ha perso la sua giocosità, la sua gioia, la sua naturalezza.
La drammaticità e l’ossessione ritmica con cui Belluardo ne scrive è una rappresentazione ed al tempo stesso una denuncia.
Un’invettiva pasoliniana come quella tragica di Salò.
Ma non è l’unica denuncia che lo scrittore rilancia dalle sue pagine.
L’avvocato razzista, sessista e maschilista, nel corso delle sue rocambolesche vicende incrocia un gommone disperato, pieno di disperati, e si troverà a condividere una vicenda di naufragio e di morte, ormai troppo frequente e nota tra le onde del nostro mare.
Ascoltiamola dalla sua pagina questa forte denuncia:
Canto perché il mare era mare, era fonte di nascita e orgoglio e ora è diventato una tomba liquida, avvolge con le sue onde, sudario tossico, chi prova ad attraversarlo e lo ricopre di scorie umane.
Ed ancora:
Io vorrei far passare il dolore, le lacrime che mi spurgano gli occhi solo nell’immaginare un gommone perso in mezzo al mare, nel freddo del novembre siciliano, un gommone carico di uomini moribondi, di donne, di bambini morenti. Con le labbra spaccate dal sale e dal gasolio.
Più ancora:
Eppure vorrei trascinartici dentro per mano del mio dolore, darti una spinta, buttarti giù da quella cazzo di poltrona dove ti sei seduto comodo a leggere questo libro del cazzo.
In molti sensi, un romanzo duro, che colpisce come un cazzotto in pieno stomaco.
Un romanzo magmatico, con varie esibizioni di forza e di carattere.
Un romanzo indignato, insofferente, impulsivo.

Grazie alla sinergia tra Siracusa Città Educativa, la Biblioteca Santa Lucia di Siracusa, la libreria Ubik Gabó e la Società Dante Alighieri, ieri sera 14 dicembre abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Arturo Belluardo e parlare del suo romanzo, con le preziose letture di Simone Giallongo.

Ci ha raccontato della sua matrice di sentimenti e di valori di riferimento da cui è partito per la scrittura di questo romanzo.

Ci ha raccontato della sua inossidabile siracusanità, tragica e greca, nonostante ormai viva da molti anni a Roma.


Ci ha raccontato delle modalità di scrittura, quella allitterazione di parole, come l’abbiamo definita, che è il frutto della libertà espressiva che si è concesso. Quella scrittura rapsodica e jazz come nel quintetto di Miles Davis del 1967, citato nel libro stesso, ed ascoltato all’inizio della presentazione.

Alla fine del romanzo Belluardo scrive così:
Lo sapevo che alla fine le risposte non servono a niente, che se arrivano, rivelano piccoli avvenimenti insignificanti, particolari amorfi che rendono ancora più squallida la verità, inutili le domande. Non farti mai domande, tanto la risposta è sbagliata.
Alla fine della nostra conversazione ci ha detto, infatti, che la sua sete di domande non ha fine, né sosta. Che il fine dell’arte è proprio quello di porre le domande, non dare risposte.
Poi ci ha detto ancora, che non gli basta più porre domande, che l’indifferenza di fronte ad un gommone di disperati che muoiono in mare, rimane intollerabile, che se non basta l’arte, se non basta porre le domande con tutta la crudezza necessaria, allora occorre fare qualcosa di più ancora.
Mettere le proprie mani e la propria faccia in gioco, perché smuovere l’indifferenza verso la violenza e verso le ingiustizie, è l’obiettivo principale.
Non a caso il suo romanzo è dedicato
Alla bellezza, alla giustizia e al jazz.