La mafia trasparente – Immortali di Attilio Bolzoni – FuoriScena

Nella libreria di mio padre c’erano tanti libri che raccontavano la mafia. Quando ancora il reato di mafia non era neppure codificato, mio padre raccoglieva storie della mafia. Ne ricordo una in tre volumi. Dalle origini fino agli anni settanta, tutte le evoluzioni di Cosa Nostra trovavano una ipotesi ricostruttiva. Sia in Sicilia che in America, ovviamente.

Oltre ai libri che ne ricostruivano la storia, c’erano pure i libri che la spiegavano: i libri di Michele Pantaleone, di Emanuele Macaluso. Quelli che la mettevano nei romanzi, Sciascia su tutti ovviamente, ma anche Mario Puzo, Il Padrino e Mamma Lucia, soprattutto, o Pippo Fava con il suo Michele Belcore. Gli incroci con la storia della II Guerra Mondiale, che riempiva altri scaffali di libri e volumi.

Ricordo in particolare un libro testimonianza di un picciotto della banda di Giuliano che raccontava dal di dentro la vicenda del bandito divenuto generale dell’EVIS. All’interno di quel libro trovai i ritagli degli articoli di Tommaso Besozzi che per Epoca decostruì la versione ufficiale della morte di Salvatore Giuliano.

Avevo sedici anni, papà non c’era più, una sera di settembre, mentre con alcuni amici rivedevamo le repliche della Nazionale Mundial di quell’estate, arrivò la notizia che il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era stato ammazzato a Palermo.

Dall’indomani, 4 settembre, comprai il giornale ogni mattina e non smisi più. Scelsi la Repubblica, mi sembrava più giovane e smart (ma ancora non sapevo cosa volesse dire) degli altri giornali.

Cominciai a crearmi un archivio di ritagli di giornale con gli articoli sulla mafia, cominciai a comprare i nuovi libri che uscivano con argomento mafia. I primi che ricordo furono La Mafia Imprenditrice del sociologo Pino Arlacchi, e poi, ovviamente, Delitto imperfetto di Nando Dalla Chiesa.

L’archivio divenne ben presto molto corposo e ingombrante e dopo tanti anni fece spazio e fu gettato via. In quella sezione di mafia il maggior numero di articoli avevano la firma di Giuseppe D’avanzo e di Attilio Bolzoni. Due firme che avevano la capacità di illuminare il buio che circondava quegli affari, senza timori o riverenze.

Ora sono passati altri anni, tanti anni. Soprattutto negli ultimi dieci sembra che la mafia sia scomparsa, di certo non è più argomento di moda. 

Per fortuna che abbiamo ancora l’opportunità di leggere le ricostruzioni di Attilio Bolzoni. In libreria con Immortali, edito da Fuoriscena, il racconto organico e lucido degli ultimi dieci anni di mafia.

Una lettura disarmante, una ricostruzione puntuale e documentata di come ancora una volta cambi tutto per non cambiare nulla.

Nuovi protagonisti, quella borghesia mafiosa che sfugge alle caratterizzazioni e alle inchieste. Non si lascia incasellare nelle fattispecie previste dai codici e si stende come un velo trasparente sulla società tutta.

“La borghesia mafiosa favorisce, sostiene e protegge solo sé stessa. Ma è sempre inafferrabile, perseguibile penalmente con il concorso esterno, che però molti in Italia vorrebbero abolire «perché non è un reato», è un’invenzione, una creazione giurisprudenziale, una formula evanescente.”

Nuovi (si fa per dire) protagonisti anche in politica. Totò Cuffaro (vasa vasa), Lombardo, Cardinale, Schifani. Una politica dove non conta più il partito, conta solo controllare, gestire soldi, tanti, facili, da distribuire. Una classe politica figlia e madre della borghesia mafiosa, con un solo obiettivo: i soldi.

“È questo che sta a cuore alla borghesia mafiosa che comanda dopo le stragi.

I soldi.”

Questa nuova classe dirigente della Sicilia non ha mezzi termini, ha sposato la cultura dell’antimafia. Urla convinta che “la mafia fa schifo”. Poi alle dichiarazioni, alle posture, seguono i fatti.

“Naturalmente tutti invocano Falcone e Borselli­no, li agitano come santini, li chiamano per nome, Giovanni e Paolo, esibiscono alle pareti delle loro stanze la bellissima foto di Tony Gentile che li ritrae sorridenti insieme in un palazzo nobiliare della Palermo araba. Poi si svendono per un incarico direttivo, fanno patti sotterranei, si scannano nelle loro guerre correntizie e contemporaneamente rivendicano libertà e autonomia.”

In questo contesto emergono le vicende incredibili della potentissima giudice Silvana Saguto. Seduta nel cuore della legislazione antimafia, rappresenta il volto severo dell’antimafia. Governa il patrimonio dei beni confiscati.

Una montagna di beni e soldi e aziende che nessuno ha mai davvero quantificato.

Indisturbata, intanto, mette in piedi un sistema di distribuzione di posti di lavoro e di soldi risucchiati dal mondo dei beni confiscati, dalle aziende sequestrate che vengono accompagnate quasi tutte al fallimento inesorabile. 

Collegata a questa vicenda si sviluppa la controversa avventura di Pino Maniaci, giornalista di assalto di Telejato, altro campione indiscutibile dell’antimafia.

Questa borghesia mafiosa, questa mafia trasparente, “non lascia impronte digitali”. Per inchiodarla alle sue responsabilità occorre creatività istruttoria, occorre affinare il concorso esterno. Ma la giurisprudenza si rivela molto restrittiva e ortodossa nella configurazione del concorso esterno.

“Ci vuole solo tempo. Per far sparire il concorso esterno, per modificare le misure patrimoniali, i beni confiscati, uno dei caposaldi della prima legge antimafia che si è data lo Stato dopo le uccisioni di La Torre e Dalla Chiesa.”

La giurisprudenza della VI sezione della Cassazione che ripete i fasti della sezione guidata da Corrado Carnevale, evita di usare la parola mafia, evita di configurare reati che hanno a che fare con la mafia. Tutti quelli che cascano nelle trappole della giustizia appaiono così come singole mele marce, non c’è alcun sistema, non c’è controllo organizzato del territorio, non c’è associazione mafiosa, solo amici che sbagliano.

Anche la incredibile parabola del condottiero della legalità Calogero Montante, quello che ad un tratto “…è uscito pazzo”, diventa così solo la “pazzia” di uno.

Eppure le risultanze giudiziarie sono corpose:

“Un’indagine nell’indagine scopre poi l’esistenza di una polizia «parallela» al servizio di Montante. Lo spaccato che emerge fa gelare il sangue.

Ci sono inchieste di criminalità organizzata e patrimoniali contro cittadini italiani che nulla hanno mai avuto a che fare con la mafia e con i mafiosi, inchieste pilotate da Montante ed eseguite (almeno questa è l’accusa) dal direttore della Dia Arturo De Felice e da alcuni suoi sottoposti. I perseguitati: un giornalista palermitano, un costruttore agrigentino, un piccolo editore, altri due imprenditori di Caltanissetta.”

Un sistema di intercettazioni e di dossieraggio che il KGB gli spiccia casa, messo in piedi negli anni e custodito nella stanza bunker “della legalità”.

“Calogero Montante è un collezionista di notizie riservate per incutere terrore e schiacciare tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, non lo assecondano o ostacolano i suoi piani. Ma a volte, solo a volte, anche per uso e consumo personale: esclusivamente per il suo piacere.”

Usa i poteri dello Stato a suo piacimento.

“È l’aria che tira in Sicilia nella stagione degli imprenditori contro la mafia.

Quando sembra che non ci sia mai fine alle scorribande, il Viminale scioglie per mafia tre comuni siciliani.

Forse è la vergogna più grande: in quei comuni non ci sono infiltrazioni mafiose, non ci sono boss, non c’è malaffare.

C’è solo qualcuno che si oppone al «partito» di Confindustria e ai commerci della monnezza.

La vicenda viene ricostruita in ogni retroscena dal presidente della Commissione antimafia regionale Claudio Fava. È brutale.”

Ma è solo lui, poverino che “…è uscito pazzo”, come sussurrano tra loro e all’orecchio di Bolzoni stesso gli ex amici, gli ex sodali, gli ex soci di una vita. 

Sembra di vederli con lo sguardo da folle di Salvo Randone, Ciampa, che sorride beffardo, levandosi il berretto con i sonagli dell’ignominia cornuta, davanti alle urla della signora Beatrice, commentando con tutti gli altri benpensanti: “è pazza, è pazza, che posso farmene io di una pazza”.

La Sicilia, come l’Italia, di questi ultimi anni, è anche il teatro delle vendette studiate a tavolino del generale Mori, dopo aver debellato definitivamente lo spettro della Trattativa.

Una Sicilia dove la mafia e l’antimafia non riescono più a distinguersi.

“C’è l’omertà della mafia, ma adesso c’è anche l’omertà dell’antimafia.

E’ un decadimento che nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe mai immaginato”

Dicevamo non solo la Sicilia, Bolzoni ci racconta con abbondanza di particolari e riferimenti, come ci ha sempre abituato, la suburra romana, Mafia capitale. Quella mafia che ancora una volta esiste, soffoca, annienta, ma nessuno vede. Trasparente come il velo del Cristo a Napoli. Le figure di Buzzi e Carminati e tutto il corredo che spazia dalla banda della Magliana agli zingari di Ostia, non possono essere mafia, non debbono essere mafia, Cadrebbe il pregiudizio positivo che respinge il fenomeno alle periferie criminali, ai boss ormai decaduti, alla fenomenale cattura televisiva di Matteo Messina Denaro.

E’ amaro il bilancio di Bolzoni. 

Un uomo, un cronista che ha conosciuto davvero la mafia, che non si è fatto impaurire, che ha scrutato con la sua lente da Holmes tutte le pieghe degli abiti buoni della festa per far risaltare le cuciture nascoste della violenza e della organizzazione criminale.

“Quando scrivo di mafia che si mescola con il potere, oggi mi sento meno libero rispetto a quarant’anni fa. Gli spazi di libertà in Italia si sono sensibilmente ristretti: querele, citazioni civili, censure e autocensure.”

Tutto il sistema mediatico dell’informazione, dei social, della cultura ha voltato la testa dall’altra parte, ha lasciato che la borghesia mafiosa si stendesse come velo trasparente sul Paese.

“Nel 2025 trasmetterebbero mai la Piovra di Damiani e di Michele Placido con quei contenuti sulla prima rete Rai la domenica sera alle 21?

Quarant’anni fa avevamo la Piovra, oggi Makari.”

Ci sono giornate che fanno la storia, nelle quali tutti ricordiamo con straordinaria precisione dove eravamo e cosa stavamo facendo. Tra queste, per me, per la memoria di papà, per il mio impegno di catalogazione e raccolta in sua eredità, è certamente il 23 maggio 1992. Al cui anniversario ci avviciniamo con imbarazzo e vergogna, con colpevole distrazione, frastornati dalle polemiche “fratricide” di Maria Falcone e Salvatore Borsellino. E con rabbia, tanta rabbia, dopo aver letto questo libro in cui Bolzoni ci spiega come e “perché la mafia è tornata com’era prima di Giovanni Falcone”.

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