Ma è un western? – I giorni contati di Elio Petri

Ci sono delle scene iconiche rappresentate in qualche film di grande successo che diventano parte integrante delle nostre riserve di immaginario.

Per esempio, la scena dell’infarto nel tram alla fine del Dr. Zivago, con la partecipazione empatica di tutti noi spettatori ai vani tentativi di attirare l’attenzione di Lara, ignara a passeggio per la via dove passa il tram.

E se non l’avete amata e memorizzata nel vostro immaginario vedendo il film del 1965, lo avrete fatto venticinque anni dopo con l’omaggio dettagliato, affettuoso e irresistibile di Nanni Moretti in Palombella Rossa.

Tre anni prima di Zivago, nel 1962, un giovane cineasta italiano che diventerà famoso per tanti altri film, sfrutta l’infarto in un tram per dare l’avvio alle vicende di un film oggi poco conosciuto e immeritatamente dimenticato, ma di grandissimo valore e impatto.

Eppure il protagonista vinse il Globo d’oro, la sceneggiatura vinse il Nastro d’argento, e fu premiato come miglior film a Mar del Plata.

Il regista era un giovane Elio Petri, che scrisse il film con Tonino Guerra e Carlo Lombardo; il protagonista un attore teatrale, raffinato interprete pirandelliano, in grandissima forma in questo film, Salvo Randone, gloria della mia ingrata città. Il film si chiama “I giorni contati”.

Il titolo farebbe pensare a un thriller, o a un western, generi in cui l’industria cinematografica italiana della seconda metà del novecento ha detto molto.

In realtà, il film è un lungo duello tra la sensibilità filosofica del protagonista e la cruda realtà che lo circonda. Una sfida all’Ok Corral, tra necessità dell’anima e necessità materiali. Una continua rivalutazione di ciò che conti davvero, quando prendiamo coscienza dell’ineffabile.

Tutto parte da un tram in una Roma immortalata da Ennio Guarnieri con un contrastato e a tratti abbagliante bianco e nero, che si incarica di dare corpo ai conflitti e i contrasti di pensiero e di psicologia che attraversano tutto il film.

Cesare Conversi, stagnaro, rimane turbato dalla morte per infarto di un suo vicino occupante del tram, apparentemente suo coetaneo, e si trova a fare i conti con il suo istinto e con la sua vita.

Pirandello ci aveva raccontato che a volte basta sentire il fischio di un treno passare lontano, per vivere una rivoluzione interiore che ci porta a rivedere in una prospettiva diversa la nostra vita e le nostre scelte.

Per Cesare il treno ha fischiato con quella morte del suo ignoto commilitone nella battaglia della vita. Cosa resta degli oltre cinquant’anni di vita dello sconosciuto passeggero, ormai con l’anima altrove?

Salvo Randone offre alla macchina da presa di Petri una maschera profonda e viva, mobile e espressiva. La maschera di uno stagnaro filosofo, che potremmo definire vittoriniano, che attraversa giorni, strade, piazze, incontra persone e personaggi, per tentare una definitiva sistematizzazione di cosa sia la vita, e di cosa meriti la vita.

Cesare pensa che anche lui potrebbe avere i giorni contati come il suo sfortunato coetaneo, e, quindi, decide di smettere di lavorare e dedicarsi a vivere giorno per giorno in cerca della pienezza.

Vedovo, un figlio sposato, vive in una camera a pensione, può dedicarsi a conoscere e scoprire.

Inizia una serie di quadri, di tappe di un viaggio dentro se stesso e dentro gli altri che lo circondano e che incontra.

La sua scelta fa scandalo. Gli amici non la comprendono. Anche il figlio non comprende e non accetta questa scelta (il figlio è interpretato da Lando Buzzanca che fa un breve ma intenso cameo, sorprendente e straniante, dovuto al doppiaggio di Marcello Mastroianni).

Restano indelebili le scene sulla spiaggia con il sottofondo di Nico Fidenco, Legata a un granello di sabbia, di Randone che accenna a piccoli passi di danza, mentre condivide con gli amici le sue riflessioni sull’umanità sudata e vacanziera, e con il finale da tragedia scampata.

I vani e maldestri tentativi di rivitalizzare un amore sincero passato – una giovane Regina Bianchi non ancora Filumena – e l’amore posticcio a pagamento. Il sussulto paterno – tradito per una parrucca – nei confronti della giovane scapestrata figlia della sua pensionante che accelera la consumazione dei risparmi. Il bagno nella vita vera delle storie dei piccoli sgarrupati imputati dei processi al Palazzaccio, con le sue colonne e le sue volte altissime, le arringhe, le requisitorie, le parole, le lacrime, le vite disperate. 

Proprio al Palazzaccio avviene l’incontro con un loschissimo Paolo Ferrari che lo trascina negli inferi degli impicci, delle truffe, delle violenze, dei tantissimi protagonisti che navigano nel sottobosco oltre le leggi e la morale, nel tentativo di recuperare altri soldi per continuare il suo esperimento filosofico psicologico.

Realizzato ormai che i giorni non erano contati, ma i soldi sì, riprende la sua attività, ricomincia la sua vita, ricucendo lo scandalo.

Il risultato del suo percorso pellegrinaggio tra strade, persone e personaggi, delle sue riflessioni psicologiche ed escatologiche si stempera nella consapevolezza che, alla fine, non c’è poi cosi tanta differenza tra la condizione umana di chi è morto e quella di chi è vivo, ma spento e disperato.

Questo apologo disilluso e disincantato non poteva avere mano migliore di quella di Elio Petri, intellettuale tra i più moderni e i più spregiudicati, qui agli albori della sua riflessione cinematografica, ancora molto teatrale.

Nè poteva avere interprete migliore dello straordinario Salvo Randone, con i suoi sguardi, le espressioni, il modo di interloquire con la cinepresa, che racconta tutta la gamma delle sfumature di questa parabola emotiva di Cesare Conversi, idraulico filosofo vittoriniano.

Nei pomeriggi uggiosi, non limitarsi a rincorrere le ultime proposte televisive, ma ricercare anche perle dimenticate tra le pieghe delle piattaforme, può regalare inattese e sorprendenti occasioni di crescita culturale.

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