Ma chi è Norman? – Le Isole di Norman di Veronica Galletta – Italo Svevo Editore

La rilegatura dei libri è un mondo affascinante. Fin da piccolo mi incuriosiva questa capacità che avevano i rilegatori di trasformare fogli grandi (ottavi, sedicesimi o trentaduesimi) in libro fruibile. 

Una volta mio zio mi mostrò come si fa, utilizzando un apposito macchinario (credo in legno) che utilizzavano nei laboratori della scuola annessa all’Orfanotrofio del paese. I fogli ripiegati venivano addossati, incollati e pressati sulla parte del dorso. Così i tanti fascicoli ripiegati diventavano un unico libro. Per renderlo però fruibile mancava un altro passo, la fresatura. Il taglio delle pieghe sui tre lati non incollati, che rende tutte le pagine sfogliabili.

Alcune rare volte poteva capitare (e mi è capitato – anche se in passato forse era proprio la regola) che i libri così rilegati per mera dimenticanza saltassero il passaggio della fresatura e si presentassero perciò “intonsi”.

In questi casi per gustarsi il libro occorrono necessariamente una serie di preliminari, che accrescono l’attesa del piacere. 

Nessuna pericolosa deriva da hot line, sto pensando alla Paella, che nella sua versione più tradizionale si presenta “sporca”, cioè con ossa, gusci e interiora, mischiati al riso e allo zafferano (e a tutti gli altri numerosi, odorosi e gustosi ingredienti) e per gustarla occorre minuziosamente e pazientemente separare il commestibile dagli scarti, poi riamalgamare il tutto e finalmente gustarla nel suo inebriante insieme.

Così per gustarsi il racconto del libro intonso, occorre pazientemente e minuziosamente separare le pagine piegate sui tre lati, evitando di sbirciare incipit e frasi dei dialoghi per non spoilerarsi da soli la storia.

I libri usciti intonsi dalla rilegatoria li riconosci dall’aspetto sfrangiato degli estremi delle pagine. Il primo con questa caratteristica nella libreria di casa mia, scoperto poco dopo i dieci anni, fu una preziosa raccolta delle poesie di Domenico Tempio

Insieme alle opere di Martoglio (rilegate e non intonse dalla casa editrice D’Anna di Messina) le poesie di Micio Tempio mi hanno insegnato a leggere le poesie popolari, a godere del tratto linguistico popolare ed unico del mio dialetto. Il dialetto, se correttamente utilizzato, è fortemente caratterizzante, fornisce quella identità che l’omologazione culturale tende a sopprimere. Non a caso nei miei anni vissuti a Ragusa, provincia molto autoreferenziale e molto identitaria, ho potuto constatare che anche i giovanissimi usano come bandiera il dialetto e lo difendono strenuamente. Il dialetto è la mappa delle nostre radici e ci ricorda sempre di quanta storia, grande e piccola, siamo parte.

Certo oggi con gli eBook, tutta questa fisica materialità dell’oggetto libro non la vediamo più. Non ci preoccupiamo più della rilegatura e delle sue conseguenze.

Per questo la mia sorpresa è stata enorme quando ho cercato il romanzo di Veronica Galletta, Le Isole di Norman, Italo Svevo editore, vincitore del Premio Campiello Opera Prima, con la seguente motivazione:

Veronica Galletta elegge lo spazio marino di Ortigia a santuario della memoria e declina in modo limpido e convincente il tema dell’archivio e della mappatura. La giovane protagonista, Elena, è impegnata in una originale ricomposizione del suo passato: le cicatrici sul suo corpo e i libri abbandonati (in modo solo apparentemente casuale) dalla madre prima di scomparire sono i frammenti di una ricognizione cartografica parziale e gravata dall’oblio, gli elementi primi di una indagine condotta sul sottile filo del ricordo.

Alla prima sorpresa di non trovare l’ebook, si è aggiunta la sconcertante sorpresa di trovare la copia cartacea, rilegata in sedicesimi incollati, ed intonsa.

La prima sera non ho letto alcuna pagina, solo preliminari. Pazientemente e minuziosamente ho tagliato le pieghe delle pagine sui tre lati.

Un primo effetto di questa scelta tipografica è quello di rimandarci indietro nel tempo, al recupero di attività domestiche e manuali, ormai dimenticate (come, per certi versi, ci ha costretto a fare il lockdown, con le soluzioni culinarie e logistiche che ci siamo inventati in cattività). Ci costringe a tornare a pensare ai libri come oggetti (i volumi proprio, fisici).

Dal confronto tra le sfrangiature delle pagine di questo libro con le sfrangiature del volume delle poesie di Micio Tempio, emerge chiaramente la più minuziosa e più paziente attenzione di mio papà in questi lavori di rifinitura.
È l’evoluzione naturale, condizionata dall’evoluzione tecnologica.

Poi ho cominciato la lettura.

Un racconto di mappe, di disegni, di libri. Libri (i volumi proprio, fisici, non tanto e non solo i racconti che contengono) che vengono usati per comunicare. Usati per capire, per ricostruire, per disseminare segni sul territorio, come le molliche di pane di Hansel e Gretel, nel cross booking ante litteram, mirato di Elena, la giovane matricola universitaria in cerca di se stessa.

Un altra delle determinanti che il mondo digitale ci ha portato ad ignorare è la disposizione dei libri (i volumi proprio, fisici) negli scaffali delle nostre librerie.

Da ragazzo ero convinto che fossero i libri stessi a cercarsi, sviluppando affinità elettive, e che guidassero la mia mano nei miei frequenti interventi per ordinare e fare posto ai nuovi libri in arrivo, creando associazioni, vicinanze che mi interrogavano, mi sorprendevano e mi incuriosivano.

Così in questo romanzo le pile e le posizioni dei libri (i volumi proprio, fisici) sono messaggi, indovinelli, interrogativi che sorprendono e  incuriosiscono Elena ed il lettore.

Un racconto di cheloidi, di bruciature, le isole della mappa che sul corpo ha disegnato l’incidente, e i cheloidi che irritano e tormentano l’anima e la memoria e la coscienza della protagonista.
L’odore delle bruciature, il nauseabondo odore degli unguenti curativi, il dolore spossante delle medicazioni che lacerano per consentire la ricostruzione.

La condizione della giovanissima Elena, ustionata e sofferente, è descritta con una forza emotiva ed una capacità di rappresentazione non certo da apprendista scrittrice. Fanno insinuare il dubbio che tale condizione non sia frutto di romanzo, ma frutto di ricordo.

Quando avevo cinque anni, in una gelata sera d’inverno al paese, nella casa di mia nonna senza caloriferi, mia mamma si riscaldava una spalla più dolorante, la spalla sinistra, con una borsa di gomma piena di acqua bollente (come usava in quegli anni). La mia irrequietezza di bambino mi portava ad appendermi all’occhiello di quella borsa e saltare come fosse una liana di Tarzan. 

-“Attento, guarda che si rompe”.

Tanto tirai e tanto saltellai che la borsa si squarciò liberando l’acqua bollente sulla spalla sinistra di mia madre e lungo il mio braccio destro, dove conservo ancora un cheloide, nascosto poco prima del polso.

Tutte le sensazioni odorose, dolorose e rancorose, raccontate da Elena, le ho vissute e mi ci sono ritrovato calato appieno.

A quella esperienza associo un forte senso di colpa che mi rimase appiccicato sulla pelle, come appiccicata restava la crema nauseabonda e la pelle che provava a formarsi, ma che occorreva togliere ogni giorno per consentire una rinascita meno infetta e più definitiva.

Forse questa esperienza mi ha condizionato nel rilevare con maggiore intensità le tracce di senso di colpa che ingabbiano la giovane Elena, e mi ha portato ad immaginare che tutta la mappa di questo romanzo sia una mappa di un profondo senso di colpa e del tentativo di trovare l’uscita onorevole da questa isola della colpa.

Veronica Galletta è un ingegnere affermato, vive a Livorno, ma la sua matrice è siracusana. Qui è nata ed ha vissuto in Ortigia. Un talento a tutti gli effetti siracusano.

Infatti questo romanzo è anche il racconto di un’isola, di Ortigia, la nostra Ortigia, la quaglia sul mare prossima alla costa orientale della Sicilia, su cui approdarono i coloni di Corinto e ne fecero il centro del mondo.

La scelta identitaria dell’isola di Ortigia è così forte, che contrariamente alle attese cui Camilleri ci ha abituato, questo romanzo compiutamente ortigiano non ha bisogno del dialetto per identificarsi.

Ortigia come luogo, come isola da esplorare.

Ortigia come guscio, come isola protettiva.

Ortigia come casa di cura, come isola di benessere lenitivo speciale.

Ortigia come gabbia, come isola da cui fuggire con ogni mezzo, come Bisio in Mediterraneo di Salvatores.

Andando per le vie dell’isola, Elena, esplora, incontra personaggi, situazioni, edifici, ricordi, speranze. Su tutto incombe la costruzione del parcheggio, il Talete, la sua inutile volgarità, la sua inutile violenza, che da quel lato del mare “il guardo esclude”.

Se il mondo fuori casa è un’isola, aperta ai venti, aperta al mare, la casa in cui Elena consuma la sua vita è chiusa al centro, è impermeabile ad ogni flusso.

Le figure della madre e del padre, con i loro atti e atteggiamenti danno nuovo significato all’espressione “sovrumani silenzi”. Le dinamiche inespresse si svolgono, feriscono, ma non si spiegano.
Elena vaga in cerca di una guida, di una mappa che nessuno vuole disegnarle (ed in questo racconto pretecnologico non è dato ricorrere a Google Maps, neanche virtuale).

Elena cerca una liberazione, ma da cosa ancora non lo sa, non lo capisce.

Nel dipanarsi degli eventi del romanzo, sullo sfondo due eventi pubblici, tragici e notissimi (li si individua senza alcun nome o dato, non servono) segnano l’inizio e la fine di questa parte della storia di Elena. 

Questa scelta narrativa mi fa intravedere un piano di lettura ulteriore, un piano allegorico. In questa lettura Elena sarebbe la rappresentazione di questo nostro martoriato (ustionato) Paese, che si dipana tra sensi di colpa e ricerca di mappe che nessuno aiuta a disegnare, per cercare la via di uscita da tutti i dolori ed i mali che i silenzi e l’inanità hanno ingigantito fino a farne una gabbia, che ci isola dal nostro futuro.
Un Paese, cui manca l’apporto dei padri, distratti, silenti, inani appunto. 
(Chissà se, in questa lettura allegorica, il diabete ed il piede malato (tras)curato, come il resto, dal padre, non rimandino alla sponda dirimpettaia di Hammamet?)

Molte letture in questa Opera Prima. Forse troppe. L’autrice minaccia di fornirci tanti altri spunti di analisi, di discussione, di divertimento con la seconda opera, la terza e così via. Noi siamo qui che aspettiamo con malcelata gola la prossima parmigiana di melanzane.

ph Marcello Bianca

Come ciliegina sulla torta, ieri sera 4 agosto, nel cortile del Gargallo, Annamaria Piccione ha presentato questo libro e l’autrice, nell’incontro organizzato dalla storica Casa del Libro. Un’occasione ghiottissima per godere di due talenti siracusani, cui ho partecipato con vero interesse e superbo godimento.

Alcune pagine del libro ed una poesia di Stevenson sono state lette da Marta Miccoli, un altro giovanissimo talento siracusano.
Ho potuto chiedere all’autrice se il piano di lettura allegorico che ipotizzavo fosse nelle sue intenzioni. No. Non era nelle sue intenzioni, ma se ha preso vita nella mia sfera di lettore non le dispiace affatto. Anche se la sua formazione di lettrice e di scrittrice la porta ad evitare i pedagogismi.

Infine potremmo provare  a rispondere alla domanda del titolo: ma chi è Norman?

Se non avete partecipato all’incontro di ieri sera, potete provare a rispondere da soli (come hanno concesso a me) ripercorrendo la storia di Elena e i suoi riferimenti (e ascoltando questa canzone).

Se volete confrontare la vostra risposta con la mia, scrivetela a commento di questo post e vi risponderò con immenso piacere.

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