Stranizza d’amuri – Belfast di Kenneth Branagh

Alla fine mio cugino scelse l’Irlanda.

Dopo aver lasciato il sud-est della Sicilia, aver vissuto a Londra, in Francia, a Roma, in Germania, decise di stabilirsi in Irlanda, la Repubblica d’Irlanda, a due passi da Dublino.

L’Irlanda è un’isola, mi dice, e gli irlandesi sono isolani come noi, ritrovo molte caratteristiche del nostro modo di vivere e relazionarsi.

Ma se l’Irlanda geograficamente è un’isola, non lo è sotto altri profili.

A seguito di vicende che durano da più di un secolo quell’isola è divisa in due. La parte a nord appartiene al Regno Unito, ed oggi dopo la Brexit non è più Unione Europea, e professa la sua religione protestante. Il resto dell’isola, cattolico, vive una sua relativa conquistata serenità dentro l’Unione Europea.

Persistono ancora tensioni tra le due Irlande, ma non certo al livello di tensione che ha caratterizzato la seconda metà del novecento, emblematicamente rappresentato dalla iconica Bloody Sunday.

Belfast divenne un brand di quelle tensioni, religiose, politiche, economiche e sociali.

A Belfast è dedicato l’ultimo film di Kenneth Branagh, nominato come miglior film agli Oscar 2022, già premiato con il Golden Globe.

Il film comincia con alcune immagini della Belfast di oggi, colorata, moderna ed efficiente, fino ad uno dei famosi palazzi ricchi di murales che tracciano quelle storie di tensione per i posteri.

Scavalcato un ampio murales, comincia il film.

Un delizioso bianco e nero, una strada con le case attorno, uomini, donne e bambini, che giocano, vivono, si muovono, in un’atmosfera da eden terrestre. Tra questi bambini un biondino con spada e scudo (un coperchio di bidone di spazzatura) di circa nove o dieci anni, che tutti chiamano Buddy.

L’irrompere di una manifestazione contro i cattolici ci ricorda subito dove siamo. Siamo a Belfast il giorno di Ferragosto del 1969.

Kenneth Branagh con questo film scioglie i suoi nodi, quell’intreccio di nostalgia, memoria e gratitudine, che lo ha portato dal Buddy di Belfast all’attore e regista che ha ridato vita a Shakespeare nel mondo.

Come Fellini nei due atti dei Vitelloni e Amarcord, come Alfonso Cuaron con il suo Roma, al cui bianco e nero, alla cui strada teatro di scena, apertamente rimanda questo film.

Director Kenneth Branagh (left) and actor Jude Hill (right) on the set of BELFAST, a Focus Features release. Credit : Rob Youngson / Focus Features

Belfast è un piccolo capolavoro. I nodi dell’anima del suo autore, si dipanano con graduale evoluzione. Personaggi principali e minori, si alternano in quel teatro della memoria a squadernare sul selciato della strada del quartiere gli appunti da cui Kenneth Branagh ha costruito la sua intera vita.

Gli esempi dei nonni, dei genitori, in aperta e stridente antitesi con l’onda arrogante e violenta che si impadronisce via via del quartiere e della città tutta.

I rapporti con i vicini, amici e compagni di scuola, che costruiscono e definiscono il primo nucleo di personalità, attorno a cui svilupperà il suo essere artista, cittadino e uomo.

La purezza dell’amore che sboccia e si radica tra i banchi di scuola e le strade del quartiere. 

La forza di quell’amore che unisce i nonni, i genitori, gli zii, gli adulti esemplari con cui si rapporta il piccolo Buddy.

La resilienza di quell’amore che costituisce l’humus su cui seminare e coltivare un’idea di mondo, un’idea di umanità, che saranno centro e pulsione della sua arte pluripremiata e riconosciuta in tutto il mondo.

Il film omaggia il cinema. Il cinema western, amato da Buddy, con le sue melodie western che sconfinano nel film che stiamo vedendo, con la loro evocatività. Il cinema fantastico delle macchine volanti di Chitty, Chitty Bang Bang, con la sua indimenticata canzoncina che ha risuonato con la voce di Rita Pavone nel nostro cuore di spettatori.

Il film omaggia il teatro, con le sue riprese in piano sequenza, con le impareggiabili prestazioni degli attori principali.

Una Judie Dench da primato presta i suoi occhi tristi, ma svelti alla nonna di Buddy.

Finalmente un ruolo umano e completo per Jamie Dornan, che si scrolla di dosso il fantasma di Mr. Grey, e del serial killer di The Fall.

Il film omaggia la musica, con le sue canzoni e le sue ricostruzioni delle colonne sonore western, di cui dicevamo. 

Pregevole il numero di canto e ballo, centrale nella vicenda del film, sulle note di Everlasting love, dei Love Affair, nel bagaglio anche degli U2, vera perla nascosta del film. 

Ritratto di una generazione, dei suoi legami, del suo amore, sfaccettato nelle varie forme, ma sempre durevole, oltre il tempo, eterno, everlasting.

Where life’s river flows, no one really knows
‘til someone’s there to show the way to lasting love
Like the sun that shines, endlessly it shine
You always will be mine. It’s everlasting love
When other loves are gone, ours will still be strong
We have our very own everlasting love

Open up your eyes, then you’ll realize here I stand
With my everlasting love
Need you by my side, girl you’ll be my bride
You’ll never be denied everlasting love
From the very start, open up your heart
Be a lasting part of everlasting love

Il film è dedicato a

Quelli che sono rimasti.

Quelli che sono partiti.

E a tutti quelli che si sono persi.

Tutta la generazione, appunto, che ha vissuto ciascuno a suo modo, l’evoluzione dell’Irlanda del Nord, dal terrorismo, alla tregua, alla Brexit, con tutto l’amore che ha potuto.

Da isola ad isola, da tradizione artistica a tradizione artistica, noi spettatori da questa Trinacria, che non abbiamo conosciuto l’irruenza e l’invasione di quel terrorismo nelle nostre giornate, ma abbiamo conosciuto l’irruenza e l’invasione di guerre e dominazioni, avremmo potuto accompagnare i titoli di coda di questo omaggio alla propria memoria, con una nostra perla musicale.

Ancor più oggi che il clangore delle armi e della loro irruenza ed invasione nella quotidianità del suolo europeo ha ritrovato centralità.

Affascinati dalla delicatezza con cui Kenneth Branagh ci ha raccontato la potenza dell’amore nelle sue varie forme, mentre intorno imperversa la violenza e l’arroganza, avremmo potuto cantare con voce flebile e partecipazione lirica intensa le parole del maestro Battiato:

‘Ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra
Mi sentu stranizza d’amuri

Vi lascio la clip della versione di Rita Botto, di questa straordinaria perla.

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