Nei vari corsi di formazione, nei libri di psicologia più o meno spicciola, sul tema della percezione incontravo spesso il famoso disegno della giovane/vecchia. Un disegno in cui appare una vecchia signora, ma spostando appena lo sguardo, il disegno mostra invece una giovane signora con il collo lungo e flessuoso (l’immagine nel titolo).
Dopo aver visto il film che non è bastato a dare l’Oscar a Demi Moore quest’anno, The Substance, ho subito pensato a questa immagine. La dimostrazione plastica (ops, scusate l’involontario sarcasmo) di quanto dentro ognuno di noi convivano insieme il giovane e il vecchio, di quanto questa convivenza riottosa e recalcitrante sia dolorosa soprattutto per le donne, costrette a questa lotta fratricida dalle pressioni di un mondo che ha dimenticato umanità e natura.
Volendo tentare di raccogliere qui le emozioni e i pensieri che la visione di questo film mi hanno suscitato, diventa inevitabile sconfinare in anticipazioni della trama. Vi avviso, pertanto, che ne troverete alcune, forse tante, e se siete sensibili allo spoiler vi conviene fermarvi qui, e tornare, se vorrete, dopo aver visto il film.

Il film costringe il lettore e spettatore appassionato a innumerevoli rimandi, forse neanche tutti voluti dagli realizzatori. Il primo rimando è stato: Dorian Gray gli spiccia casa. Ma andiamo con ordine.

Una Demi Moore, Elizabeth Sparkle, in grandissima forma, emula della nostra Barbara Bouchet prima che mandasse il figlio in giro per ristoranti, si gode il suo successo insegnando alle spettatrici di ogni età a rendere frizzante la propria vita (Sparkle your life) tenendosi in forma aerobica, giocando con il suo cognome. Il sistema che governa la piattaforma televisiva da cui Elizabeth/Demi entra nelle case delle donne americane, impersonato da un disgustoso Dennis Quaid, divoratore a mani nude di crostacei e maionese, spezza il suo specchio. A cinquant’anni non c’è più, dice, senza spiegare cosa. Con questa affermazione apodittica e irreversibile le viene chiesto di passare il testimone. Si cerca una nuova e più giovane allenatrice tersicorea degli addominali delle spettatrici. Un nuovo specchio in cui cercare una impossibile e frustrante identificazione.

Sullo sconforto della ancora straordinariamente bella Elizabeth fa breccia la pubblicità di una soluzione, The Substance, appunto. La promessa di rinascere più bella e più giovane, restando se stessa.
La soluzione fantascientifica proposta da questa fantomatica organizzazione è ovviamente allegorica, rappresenta paradigmaticamente il desiderio di rimanere bella e giovane, di superare le correnti gravitazionali, il tempo e la luce per non invecchiare, a cui ci costringono sempre più spesso.
Attraverso una mitologica partenogenesi indotta, Elizabeth partorisce dalla sua schiena, come Zeus dalla sua coscia, Sue, la giovane e bella se stessa che non c’era più: Margaret Qualley.

Come ogni stregoneria che si rispetti, ci sono delle regole che permetteranno allo stratagemma di funzionare “per sempre”:
Elizabeth e Sue dovranno alternarsi una settimana ciascuna. Una settimana Elizabeth perde conoscenza e si ricostituisce “dormendo”, l’altra settimana sarà Sue a perdere conoscenza per aspettare che la matrice Elizabeth ricrei il fluido, il midollo, di cui si alimenta nella settimana di piena attività.
I tempi andranno rigorosamente rispettati.
Entrambe devono tenere presente che sono una sola persona, la stessa persona, non sono due diverse.
Solo la matrice, Elizabeth, potrebbe decidere di fermare tutto.

Vedi che razza di Tootsie hanno messo in piedi gli autori di questo film per permettere a Elizabeth di ottenere, attraverso Sue, la parte di allenatrice star che non le vogliono più dare.
Da questo punto il film prende una deriva alla David Cronenberg. Azioni, immagini, movimenti, evoluzioni dei corpi degne dei migliori film body horror, squisitamente splatter, si susseguono a descrivere il precipitare degli eventi.
I corpi vengono lucidati, esaltati, spezzati, rimasticati, modificati, deteriorati, disgregati, trasformati, perdendo del tutto la loro umanità, la loro natura, confluendo alla fine in una mostruosa Elephant (Wo)Man, che è tutta deforme, non solo il viso. Per finire in una orrenda Gorgone che si squaglia sulla stella hollywoodiana.
Le regole prescrivevano un ragionevole equilibrio, su cui fondare un benessere della giovane vecchia Elizabeth/Sue.

Ma ben presto cominciano a prevalere piccole e grandi forme di egoismo tra le due metà. I tempi non vengono rispettati, Elizabeth scopre con orrore che ogni sforamento produce il rapidissimo invecchiamento e deterioramento di alcune parti del suo corpo. Durante la settimana di Sue, Elizabeth non rimane inattiva, tende ad ingozzarsi vendicativamente, creando alcuni problemi al corpo di Sue.
C’è una indimenticabile sequenza in cui infilando le mani dentro il suo ventre, come i santoni indiani che operano a carne viva, estrae una coscia di pollo intera non digerita dall’ombelico.

Il sistema continua a ricordarle che è UNA, ma l’istinto di sopravvivenza di ciascuna parte continua a destabilizzare l’intero equilibrio, in un conflitto schizofrenico e pirandelliano.
Elizabeth si rende conto che diventa sempre più difficile ricordare che questa parte di se, quella senior, merita di vivere, che è ancora importante, e che nel contempo l’altra parte ha già cominciato a divorarla da dentro.
Sia Elizabeth che Sue cominciano a odiarsi reciprocamente, non rendendosi conto che l’unica donna che costituiscono, sta odiando se stessa.
Si sviluppa una guerra che non avrà vincitori. Se Gioventù sapesse, se vecchiaia potesse, il conflitto rientrerebbe subito e una forma di vita soddisfacente prenderebbe il posto di questo insaziabile furto reciproco di vita.

In uno dei momenti più tragici del conflitto, Elizabeth urla a Sue: tu sei la parte più bella di me, ho bisogno di te perché odio me stessa. La sequenza chiave per rappresentare la scissione, la sofferenza cui sono costrette le donne di questa epoca.
La stessa sequenza in cui, da matrice, Elizabeth potrebbe ancora fermare tutto, limitando i danni (irreversibili) ormai maturati ed evitando ulteriori deterioramenti. Ma il desiderio del successo, del riconoscimento, della gloria, dell’accettazione, seppur per interposto corpo, prende il sopravvento e viene rinviata ancora la fine.
Cinematograficamente bisogna dire che i curatori degli effetti speciali hanno fatto davvero un gran lavoro. Ma anche Demi Moore e Margaret Qualley non si son risparmiate. E mentre la Qualley presta il suo corpo alla bellezza, salvo quel parto ombelicale di una coscia di pollo arrosto, con tanto di pelle rugosa e peli ritti, a Demi Moore tocca di rappresentare sul suo corpo il degrado, lo sfacelo, gli insulti del tempo moltiplicati e amplificati dal meccanismo distopico. Una prova di recitazione coraggiosa e superba. Non riesco a spiegarmi cosa ha trattenuto l’Academy dall’assegnarle l’Oscar.

Tornando al film, come potete già immaginare, nella fase più importante della carriera di Sue, il gioco si rompe. Elizabeth ormai ridotta ad una crudele anticipazione del suo cadavere, non è più in grado di sostenere Sue, che assiste al disgregarsi del suo corpo, a partire dai denti, in sequenze definitivamente orride e ripugnanti.
L’evoluzione finale è affidata all’insano tentativo di Sue di diventare a sua volta matrice, avviando una nuova partenogenesi mitologica dalla schiena. Ma il dna non tollera ricombinazioni di secondo livello. Ne viene fuori un mostro splatter, ripugnante e orrendo che si andrà a squagliare definitivamente sulla stella di Elizabeth Sparkle, incastonata nel marciapiede delle star.

Se si resiste all’ostensione di corpi, tessuti, sangue, e ribrezzi vari cui ci sottopone il film di Coralie Fargeat, si può assistere a una favola nera, distopica, sulla ricerca della bellezza e della giovinezza, irrazionale, disumana e innaturale cui siamo tutti costretti. Una allegoria della lotta contro se stesse che molte donne cominciano a fare già in età puberale. La ricerca di aderire a canoni di bellezza cristallizzati da influencer discutibili, che si trasforma gradualmente nell’ansia di cancellazione dei segni del tempo che è passato.
Una donna smette di essere una persona, di essere una anima, unica e integra. Diventa schizofrenicamente figlia e madre di se stessa. Una madre che si discosta dal modello imposto e adorato, che incarna il fluire del tempo, ne registra il passaggio, si odia e pretende di essere, diventare, la figlia che idealmente aderisce alla forma omologata, resta inalterata nel tempo. Fino a quando, con la mente della figlia ideale, non inciampi in uno specchio e riconosca nell’immagine riflessa di essere essa stessa la madre, il ritratto in cantina che invecchia.
Il corto circuito finale con il mostro ectoplasmoso, ibrido, con due facce, due bocche, quattro mani, quattro gambe, quattro occhi, quattro orecchie, ma tutto mischiato orribilmente e al posto sbagliato è l’orizzonte cui tende il delirio della estetica femminile a cui sono piegate tutte le donne. E’ una esagerazione cinematografica, nella realizzazione mostruosa, ma non è una esagerazione tanto lontana dal vero se pensiamo ai tanti casi della cronaca, che ci restituiscono abusi a volte letali della medicina estetica, e risultati al limite dell’orrido dei tanti interventi chirurgici a suggere, gonfiare, rialzare, riempire, tirare.
Insomma, una bella botta allo stomaco. Un film che ti spinge più volte al conato di vomito, e che vorrebbe spingere altrettante volte al conato di indignazione, di riscatto, di risorgimento della natura umana di ciascuno di noi, uomo o donna, giovane o vecchia che sia.
E comunque tra tante mostruose immagini di corpi a pezzi e privi di unità, di armonia, rimane impressa più a lungo l’immagine che ci fa da specchio a tutti dentro al cinema: l’orrido Dennis Quaid che a bocca aperta, ciancica divorando i crostacei, disgustoso e ributtante, che umilia Elizabeth/Demi, elegante e altera, fascinosa e severa, solo grazie al suo potere machista.

Questa immagine fa davvero schifo!
Grazie Gingolph, come sempre ottima recensione e strepitoso commento.
Ho atteso fino all’ultima riga un cenno sull’artefice di tutto ciò, forse meritava ancora più spazio di una disgustosa e quanto mai oscena foto finale.
La donna non ricerca la bellezza e la gioventù, la donna ricerca di essere desiderata e ai giorni d’oggi Sue non è tanto diversa da una coscia di pollo che va sbranata e divorata a mani nude da uomini come il vicino, il giovane motociclista o il muscoloso amante o anche da quel mucchio di bavosi ricchi e saltellanti vecchietti. Nel film c’è di più della morte ti fa bella con la strepitosa Meryl Streep, c’è per chi lo vuole vedere la deriva del desiderio sessuale, la morte dell’erotismo, la definitiva assenza di amore per il prossimo.
Poco importa che sia un ragazzo ad invogliare Elizabeth ad intraprendere questa nuova avventura. Probabilmente anche lui ha agito per piacere ad un pubblico che lo brama come un oggetto sessuale.