Quando ero bambino, ma molto bambino, prima della scuola o primi anni di scuola, associavo Rosa Balistreri alla sorella di papà, la zia Luisa. Forse il modo di parlare di entrambe, o lo stesso sguardo commosso di affetto che papà riservava alla cantatrice del sud, quando appariva in televisione, e che riservava alla sorella quando si incontravano.

Più probabilmente perché a casa della zia Luisa ascoltavamo i dischi e le cassette nuove e qualche volta sarà capitato che abbiamo ascoltato Rosa Balistreri e nel mio piccolo cervello ipersensibile sarà scattata una inestricabile quanto inspiegabile associazione. Come quella che scattò con la canzone di Patty Pravo, Tripoli 1969, che ascoltai dalla radio la prima volta mentre mangiavo degli spaghetti al burro, buonissimi, ma difficili da gestire per la mia bocca infante, e da allora, quando ascolto l’inizio della canzone, sento sia il gusto degli spaghetti al burro che la sottile paura di soffocare connessa.
Tra questa associazione indelebile e la smodata passione di papà per la musica “oriunda”, Rosa Balistreri è sempre stata presente nella mia infanzia. Ascoltata e ricercata nelle rare apparizioni televisive (ancora in bianco e nero) che ricordo ancora oggi.
Più tardi, molto più tardi, scoprì il jazz e scoprì la profondità delle voci di Billie Holiday, di Ella Fitzgerald, di Bessie Smith. Imparai a riconoscere in quelle voci la stratificazione delle vite difficili che riempivano tutte le frequenze di quelle voci, proprio come quella della “zia” Rosa. Imparai intravedere le ombre degli strani frutti appesi nelle voci di tutte le Rosa del mondo.
Alla sua voce ho fatto ricorso innumerevoli volte nel corso della mia vita. Ho coltivato pure la passione per le tante interpreti del suo mondo che si sono rispettosamente avvicinate al corpus popolare di Rosa.
Quando ho appreso che stavano realizzando un film sulla vita di Rosa Balistreri, prima ancora di conoscere i dettagli, per uno di quegli scarti mentali imprevedibili, quelle associazioni ipersensibili di cui sopra, mi si è materializzata l’immagine di Lucia Sardo nei suoi panni. In questo modo realizzavo un ponte, necessario come tutti i ponti che uniscono, tra il mio sangue paterno, la “zia” Rosa/Luisa, e il mio sangue materno, la nonna Turuzza, che rivedo ogni volta nelle espressioni e nella mimica di Lucia Sardo.
Poi i dettagli comprendevano pure Paolo Licata che mi aveva già stregato con la trasformazione in capolavoro cinematografico di Picciridda, e Carmen Consoli, che ormai da molti anni ha legato la sua immagine a Rosa.
Finalmente ieri sera, con il comignolo vaticano che ancora sbuffava white smoke in our eyes, è giunto il momento di vedere questo tanto atteso film. L’amore che ho.

Diciamo subito che per coprire tutto l’arco della vita di Rosa Balistreri dall’infanzia del 1937 al 1990, Paolo Licata ha scelto tre attrici perfette. Tre attrici che non hanno ricercato la somiglianza fisica, come spesso di recente avviene al cinema, ma hanno incarnato una fase della vita di Rosa, ne hanno indossato carattere e urgenza, forma e misura, senso e sentimento.


La fase della irruenza, della gioventù, quando ancora tutto poteva accadere e andare come si spera e si merita, è stata indossata da Anita Pomario, già Sorella Macaluso con Emma Dante. La irredimibile dignità, la vulcanica irruenza, il senso di rispetto per sé di questa giovane licatese che ama impudentemente, che canta per la via, che rimane incantesimata dal Cantastorie Don Ciccio, sono scorse per le vie di Campobello di Licata, tra chiese, strade, carceri e parrocchie infide nelle scarpe di Anita. Gli occhi di Anita, giovane netina dal futuro abbondante, hanno trafitto tutti gli spettatori, conficcandosi al centro del cuore.

La fase della consapevolezza, della maturità artistica, del riscatto, della voce che governa il canto, della politica, del palcoscenico Folk che divenne la chiave di garanzia di successo per molti artisti, attraversa i ponti sull’Arno nelle scarpe di Donatella Finocchiaro. Chi altri avrebbe potuto dare pienezza d’amore agli sguardi sul mondo, sui compagni, su Guttuso, sulla figlia, sul ”figlio”. Chi altri avrebbe potuto dare quella fierezza alla dignità di una donna che recupera dalla povertà la famiglia, che diventa desiderata e invocata dal sistema mediatico del tempo, ma anche sottovalutata o temuta per altri versi. Chi altri avrebbe potuto rendere lo strazio dell’ostinazione con cui il mondo sembra bastonarla con i remi ogni volta che provi con tutte le sue forze a tirare fuori la testa dall’acqua.

La fase finale di questa vita straordinariamente difficile, la fase della memoria, del ricordo, della consolazione, della poesia, della nostalgia ha avuto gli occhi, l’espressione, i gesti e la voce di Lucia Sardo. L’intensità degli sguardi, del movimento in scena, anche quando non è inquadrata in volto, la pienezza della voce del canto, sono le armi con cui Lucia Sardo ci ha sfidato in un duello continuo a resistere alla partecipazione, alla commozione, alla vicinanza con questa Rosa, che è stata Rosa. Lo abbiamo perso il duello, a ogni tirata, un sospiro, un luccicone, un groppo in gola. Profonde emozioni ci hanno attraversato tra un quadro e l’altro.
Paolo Licata, consapevole che sta raccontando la storia di un’artista geniale, di una donna geniale, evita di cadere nella linearità progressiva dell’Amica Geniale. Le tre Rosa del suo film sono una sola Rosa, che si alterna senza filo temporale. Un montaggio che opera per movimenti concentrici, per cui vengono accennati quadri della vita, di poco più di sessant’anni di vita, in un carosello che viene a precisarsi, a definirsi, a ogni giro della giostra sempre di più.

Abbiamo la sensazione di viverle contemporaneamente le tre Rosa, perché i rimandi tra fasi e momenti, le relazioni di causa ed effetto, sono suggerite e poi precisate e poi confermate dal montaggio impeccabile di questo film. Come se un cantastorie surreale disegnasse in diretta i quadri della storia alle sue spalle, saltando da uno all’altro, seguendo una linea rossa di relazione causale e non temporale, e accennando i quadri e completandoli sempre più ad ogni ripasso. Una visione bergsoniana del racconto cinematografico, uno stream of consciousness emozionale e visuale. E però dei quadri del cantastorie hanno l’efficacia quei cenni, a volte davvero di pochi minuti per volta, che raccontano momenti e svolte della storia, e che si completano davanti ai nostri occhi, rivelandoci la storia di Rosa.
Una grande cura è data alle ambientazioni, ai piccoli dettagli, con luce, azzarderei, viscontiana. Così, solo per esempio tra i tanti dettagli curati, abbiamo la calia e la simenza sparse sui tavoli della bettola dell’infanzia, e le tovaglie a quadri e i bicchieri e piatti nelle trattorie di Firenze, con artisti e intellettuali che mangiano, ridono e bevono, suonano e cantano e disegnano rose sui tovaglioli, mentre indossano senza pudore quei colletti appuntiti, quelle fantasie improbabili, quei colori sgargianti che afflissero gli anni Settanta. Grazie a questa cura, non serve precisare con didascalie in quale fase ci si trova, ce lo dice lo sguardo da solo.
Complice questo montaggio, la sua scelta non lineare, la sua incompiutezza progressiva, lo sguardo dello spettatore rimane fisso sulla fase della memoria, e della nostalgia, la fase di Lucia Sardo.
Complice la sua arte magistrale nel mostrare la fragilità psicologica di questi momenti, la costante introspezione della donna Rosa, tutti gli episodi delle due fasi precedenti della vita sembrano non vissuti davvero. Sembra che Rosa rincorra i suoi ricordi, riviva il dolore e quegli episodi si riproducano, frammentati, e si rincorrano nella sua testa. Sembra che dentro la sua testa si completino i quadri del telo da cantastorie. Per farci entrare dentro quella testa, quell’anima, Lucia Sardo sul suo viso ha indossato tutti gli anni e le vicende di Rosa Balistreri, sulla sua espressione, sulla sua recitazione, sempre più matura e consapevole, ha disteso il telo e le figure della storia di Rosa da cuntare.
Tutto il cast si offre a questa operazione con generosità, in particolare Tania Bambaci, che con Katia Greco, e Marta Castiglia, era anche in Picciridda. O Vincenzo Ferrera, padre di Rosa, o Leonarda Marino, la mamma (anche lei già in Picciridda), le sorelle, gli altri comprimari al servizio di questo capolavoro di memoria e di emozioni.

Tania Bambaci fa da contrappunto costante a Rosa. Figlia sfortunata, rancorosa, invidiosa pure, e infinitamente amata, disperatamente amata, inesorabilmente amata. Il suo sguardo compie davvero quella trasformazione che la storia impone, restituisce allo spettatore il proprio personale dramma che si consuma tra i primi anni cinquanta fino al 1990. Uno scontro tra due amori così forti da potersi solo fare del male, crudelmente, senza respiro o pausa. Una tragedia nella tragedia umana di Rosa.
Parlando di Rosa Balistreri, la cantatrice del Sud, come fu definita all’apice del successo (anche da Dario Fo come abbiamo visto ieri), non si può prescindere dalla musica, dalle canzoni, dalla memoria musicale e “oriunda” che trascina con sé questa storia.
Qui spiccano gli altissimi contributi in scena di Mario Incudine, Don Ciccio il cantastorie, modello e ispirazione della Rosa Anita, e di Carmen Consoli, Alice, accompagnatrice delle ultime esibizioni della Rosa Lucia.

A Carmen Consoli si deve comunque tutto l’impianto musicale del film, una decorazione di gemme, essenziale per la confezione superlativa di tutto il film. La sua anima, ormai definitivamente contagiata da anni dall’anima di Rosa, risuona in ogni accordo di chitarra, in ogni suono che ricostruisce e cuce certosinamente questa tela e la sua storia.
La colonna sonora in circolazione da ieri vive di vita propria nel mondo musicale e resterà come pietra miliare del racconto delle donne di questo Sud, di questo Paese, e rimanderà altri occhi al cinema, come il film rimanderà altre orecchie al disco, in un circolo virtuoso inesauribile.

Della storia vera e propria, per quanto in larga parte nota, non racconterò nulla. Non voglio correre il rischio dell’insurrezione popolare che stava travolgendo il Maestro Muratori nella presentazione del film ieri sera, quando, infervorato dall’emozione accumulata in una visione privata, non riusciva a trattenersi dal descrivere momenti e situazioni, con il fine incolpevole di evidenziare e valorizzare. Il montaggio del film, di cui si è detto, merita che la storia venga lasciata al libero incondizionato godimento degli spettatori.

All’uscita dal cinema, con gli occhi gonfi, il cuore pieno, e il profumo dell’abbraccio a Lucia intorno al capo, mi hanno fermato per chiedermi poche parole sul film. In un fulmineo corto circuito mentale dei miei, ho messo insieme in un’unica immagine, Rosa, la zia, la nonna, papà, la memoria, Lucia Sardo e mi si è materializzata l’immagine con cui voglio rappresentare anche a voi cosa è stato questo film per me.
Una coperta all’uncinetto di cotone écru (bianco sarebbe troppo borghese).

Una coperta composta di minuscoli sforzi di vista e di mano, di preziosi ricami, e nodi e fiori disegnati – come quelle che faceva mia nonna – come quei preziosi pezzi di carta cuciti insieme con le parole dell’ultima canzone, meritoriamente affidata alla inconfondibile voce di Rosa, e che assume altri più risonanti significati dopo il suggestivo montaggio (non a caso la canzone che dà il titolo al film).
Una coperta che tutti avremo visto tante volte stesa sui letti dignitosi e nobili delle nostre case avite. A coprire i segreti di una vita privata non sempre felice, ma sempre dignitosa, non sempre ricca, ma sempre dignitosa, tra testiera e pediera di legno marrone così spesso e robusto, da contenerla tutta una vita piena e complicata come quella.
Una coperta in cui avvolgersi, piangere e ringraziare comunque la vita che è per tutti straordinaria.
Andate al cinema e avvolgetevi per un centinaio di minuti dentro quella coperta, ringrazierete chi ha saputo realizzare così questo film, chi modestamente ve lo ha consigliato e Rosa Balistreri per esserci stata nel flusso di questa vita.
