Premessa inevitabile: una piccolissima anticipazione della trama è stata necessaria. Nulla di straordinario. Una piccola cosa che comunque si potrebbe già capire leggendo le note di copertina.
Siccome cerco sempre di evitare volevo avvisarvi. Buona lettura.
Ho finito la lettura di questo libro nella notte tra venerdì 22 e sabato 23 settembre, poco dopo l’uscita in libreria. Letto tutto di seguito senza considerare il battere delle ore man mano che la notte si allargava.
La circostanza assume rilevanza perché proprio sabato 23 ricorre il 43° anniversario della scomparsa di mio papà.
Quarantatré anni come quelli che ci mette Anna per decidere di svuotare l’armadio dei vestiti di Amos, per decidersi ad accettarne la scomparsa.
“È accaduto una mattina. Mi sono svegliata, ho guardato la parte del letto dove ha dormito per sei anni e ho pensato: “Non ci sarà mai più”. Quel 23 novembre 2019 è stata la cerimonia dell’addio: il tempo si è ritirato dal mio sangue ed è arrivato il rimpianto, tutto assieme.”
Una forma di elaborazione del lutto molto estenuata, prolungata, estremizzata costituisce, infatti, l’ossatura di questo romanzo, la linea che guida la narrazione, la motivazione che spinge il narratore alla narrazione.
Sto parlando di La Cerimonia dell’Addio di Roberto Cotroneo, inaspettatamente Mondadori.

La scomparsa di mio papà fu una scomparsa ordinaria nel senso della morte, accertata e seppellita, meno ordinaria per il tempo, per l’età sua e mia in quel momento.
La scomparsa di Amos, invece, è una scomparsa nel senso tecnico. Amos si è volatilizzato. Nessuna certezza, nessuna chiarezza. Allontanamento volontario, amnesia, smarrimento, incidente?
Nessun appiglio su cui costruire una elaborazione, una narrazione che pian piano sfumi nella rinascita.
Amos è impigliato nella sua clamorosa assenza.
Anna è impigliata nella sua vana attesa.
“è il mio sguardo a ritroso, è lo stallo in cui mi trovo, è questo mio restare ferma su un crinale dove la solitudine non conforta, perché è un abbandono feroce.”

Con la sua lingua levigata, lucida e spietata, Cotroneo racconta questo doppio incaglio lungo gli anni che passano.
Ricorre a maestri assoluti. La sua grande capacità di lettore gli consente di miscelare ingredienti anche tra loro diversissimi, ma importanti.
Più volte fa riferimento a sentimenti letterari già espressi da penne impareggiabili. Più volte fa riferimento al giovane Dedalus di James Joyce, che in un passo cita quasi esplicitamente:
“La neve sembrava volesse coprire la terra, l’universo, come se l’ultima ora fosse scesa su tutti, vivi e morti.”
Con sapiente maestria a ogni riga e ogni pagina arrotonda e completa i tanti personaggi che completano il microcosmo di Anna (e Amos). Gli amici, le figlie, gli avventori della sua libreria e della sua vita.
Tutta la narrazione si incentra su Anna, tutti i personaggi si incentrano su Anna e la sua vicenda. E poiché Anna incentra tutta la sua vita nell’attesa di Amos, tutti sembrano adattarsi a questo assente convitato di pietra.
E davvero Anna è il baricentro di questo microcosmo che le ruota intorno.
“Ora che sono vecchia so che i miei amici li ho tenuti assieme io. Legati stretti perché non si disunissero.”
Ma questa centralità non le serve per conoscerli meglio, per approfondire le relazioni, per assumere maggiori elementi per interpretare la propria e l’altrui vita. Nel corso dei quarantatré anni raccontati in questo romanzo Anna “scopre” delle verità diverse solo quando è costretta. E anche in quei casi cerca di ridurre al minimo l’impatto delle novità.
“La verità è che non si sa mai cosa succede davvero nelle case degli altri e le parole sbiadiscono subito.”
Anche Anna non è immune dal male di questi tempi: l’aridità delle relazioni. Non importa quanto tempo si passi insieme, questo tempo non cresce, non matura, non qualifica il livello della relazione.
“La vita delle persone non è nel dire, non è ritrovare i versi, le poesie, ma nell’ascoltarsi, nel capire. E nessuno è capace di ascoltare il dolore. Tutti scappano.”
Anna scappa. Dalla verità, dagli altri, dalle figlie, da Amos (quello vero, non quello che si racconta lei), da se stessa, dall’addio che rinvia indefinitamente.
“La fedeltà a quell’amore, a sé stessa, non è mai una virtù, non è mai una disciplina. È stata un’arroganza che ha tolto la parola a tutti. Se lei è così perfetta, nessuno avrà il diritto di farle cambiare idea.»
Arroganza?»
Certo, arroganza. Restare fedele a sé stessa le ha impedito ogni possibilità di vedere il rovescio delle cose. Quello che si nasconde a tutti. E non mi dica che lei non ha nulla da nascondere. Perché non le crederei.”

Troppo tardi Anna si rende conto dell’errore. Troppo tardi Anna comprende dove sta il passaggio equivoco della sua vicenda.
Troppo tardi Anna (e anche Roberto Cotroneo) vorrebbe sbloccare un timone incagliato.
“L’attesa è un atto di viltà. È un modo per stare fermi, per non cambiare nulla. Non ho affrontato il dolore, non ho combattuto contro la sorte. Ho spostato la speranza sempre più in là, alla fermata successiva. E aspettando, alla fine sono stata io a dimenticare il mio nome”

Ma questo romanzo ha una chiave duplice, ha più piani di lettura.
Cotroneo cita esplicitamente anche un altro maestro del romanzo: Milan Kundera, con la pagina de L’Ignoranza in cui descrive la nostalgia.
Proprio come fa Kundera, nell’altro capolavoro L’insostenibile leggerezza dell’essere, Cotroneo irrompe nelle pagine e svela il gioco narrativo. Sì mostra dietro la macchina da presa mentre indirizza i personaggi a svolgere la funzione che vorrebbe assegnare loro.
Un momento di verità.
Un momento di chiarezza.
Sulla dinamica della scrittura di questo romanzo (ma anche di ogni romanzo, proprio come fece Kundera).
Sulla motivazione, sulla spinta, sulla esigenza di compiere questa narrazione.
“Ho scritto questo romanzo per dire cosa ho perso: pezzi di memoria, frammenti di vita, ricordi non miei che andranno smarriti, perché vanno perduti i ricordi di tutti.”
I maestri citati esplicitamente, e i maestri che solo un lettore di ampie vedute può ritrovare disseminati tra le righe, lo stile letterario e la modalità narrativa fanno di questo romanzo un vero e proprio romanzo mitteleuropeo. Un bel romanzo del novecento. Un romanzo che ci attraversa dentro in più modi e in più forme.
La ulteriore chiave di lettura che ci ha fornito l’autore stesso con le sue incursioni sulle pagine è chiara, lampante. Se vogliamo la stessa che spinge tutti a scrivere, che spinge anche a me a scrivere, e scrivere di mio papà. Raccontare quello che è accaduto, per quanto venga citato senza variazioni fantastiche, o per quanto venga travisato e nascosto nelle pieghe degli abiti di altri, tanti, personaggi, produce il magico effetto di riportarci nel passato. E come concludono le ultime righe di questo sofferto capolavoro di Roberto Cotroneo:
“Ma nel passato, quelli che ami non muoiono.”
