Un luogo comune – La scuola del silenzio di Ninni Bruschetta – Harper Collins Edizioni

Lo schema è archetipico.

Lo abbiamo visto rappresentato più volte. Il microcosmo chiuso, con le sue apparentemente incomprensibili leggi e regole, con i suoi rapporti e le sue relazioni, riceve l’innesto di uno “straniero”. A nulla vale che questo straniero sia nato in quel microcosmo, il solo fatto che se ne sia allontanato, che abbia adottato strumenti, lingua e abitudini diverse lo rende “forestiero”.

Avendo perso la dimestichezza con i non detti, con i gesti, con le espressioni familistiche del microcosmo, si troverà spaesato e faticherà a comprendere come va il mondo.

Il primo romanzo di Ninni Bruschetta, La Scuola del Silenzio, edito da Harper Collins, questo schema lo raddoppia, lo sovrappone. Il protagonista ritorna in patria, dove nessuno riesce mai a diventare profeta, e vive la vicenda secondo lo schema previsto. Al contempo rivive la vicenda con lo stesso schema (il forestiero era ovviamente un altro) che lo aveva spinto a lasciare quel microcosmo.

Il fatto che questo microcosmo da cui il protagonista parte e a cui ritorna sia una città della Sicilia, della Sicilia Orientale, tanto simile a Messina, ma non dichiarata come tale, non è affatto casuale.

Tutto l’apparato di regole, di legami, di vincoli, di violenze, è intrinsecamente siciliano, costituzionalmente siciliano, indubitabilmente siciliano.

Se è vero che la palma va a nord come avvisava Sciascia, è anche vero che qui fiorisce sempre più forte e robusta.

Così il grande attore, acclamato da pubblico e critica, richiamato a dirigere il teatro della sua città d’origine, dimentico delle vicende violente e tragiche che accompagnarono il suo distacco, cede alla lusinga, alla volontà di rivalsa e ci casca di nuovo.

Non serve dilungarsi oltre sulla trama, delle tante applicazioni dello schema archetipico di cui dicevamo, ognuna cerca la sua via di sviluppo, e questo romanzo non è da meno, anzi coraggiosamente sviluppa la vicenda (le vicende) lungo direttrici davvero sorprendenti che regalano al lettore il piacere della lettura.

Qui ci interessa esplorare le fondamenta dell’archetipo, comprendere la sua natura intrinsecamente siciliana.

Per esempio il sesto capitolo, dopo la citazione più ripetuta (e meno compresa) dal Gattopardo, Bruschetta lo apre con questa lunga citazione:

“Voglio fare un discorso corretto e sereno sui siciliani, premettendo naturalmente che io sono perfettamente siciliano. Un discorso cioè sulla stupidità dei siciliani. Noi affermiamo spesso di essere straordinariamente intelligenti, quantomeno di avere più fantasia e piacere di vivere, rispetto a qualsiasi altro popolo sulla faccia della terra. Non è vero! La storia è là a dimostrarlo. Da migliaia di anni siamo semplicemente terra di conquista, gli altri arrivano, saccheggiano, stuprano, costruiscono qualche monumento, ci insegnano qualcosa e se ne vanno. Noi ci appropriamo di una parte di questa civiltà, a volte diventiamo anche i custodi del tempio, in attesa che arrivi un’altra ondata saccheggiatrice. Siamo quasi sempre colonia per incapacità di essere veramente popolo. Presi a uno a uno, può anche accadere che taluno riesca a esprimere (nella poesia, nel delitto, nella finanza, nell’arte) attimi di ineguagliabile talento. Sono quelli che ci fottono, che ci danno l’impressione, spesso la certezza, di essere i migliori. Nella realtà, presi tutti insieme, siamo sempre un popolo imbecille.”

Si tratta di un famoso scritto del giornalista Pippo Fava. Figura iconica di un certo modo di intendere il giornalismo, di intendere l’arte, di intendere la vita. Fino a quando quarant’anni fa la vita non gliela fermarono mandandogli uno scagnozzo con la pistola, mentre il cinque gennaio si apprestava a diventare epifania, mostrando a chi voleva capire quale fosse il vero peso del potere.

Di questa imbecillità spacciata per forza, per unicità, per spacchiosaggine i nostri giorni sono pieni. La vediamo, la sentiamo, la percepiamo ovunque. È trasversale, non si sa mai come combatterla.

Il racconto di Ninni Bruschetta la mette plasticamente in piega e la agisce nelle due direttrici in cui si svolgono le vicende.

Se ne ricava il senso di una costante coazione a perdere. A perdere le occasioni di riscatto, a perdere le opportunità di rilancio, le possibilità di fare spazio a regole condivise e utili a salvaguardare tutti.

È abile Bruschetta a raccontare tutto questo facendo agire i personaggi, non cedendo spazio e righe a riflessioni appiccicate tra un’azione e l’altra. È proprio lo svolgersi dei fatti, le parole dette, quelle non dette, i gesti, le espressioni del viso molto più che supersegmentali nelle nostre latitudini, a mostrare come nasce, si sviluppa e ci fotte, questa imbecillità spacciata per specialità del luogo.

Diciamo che si intravede la sua qualità di attore in questa modalità narrativa. Il libro, infatti, è già pronto, senza particolari spese di adattamento necessarie, a rivivere in un film o in una miniserie. Chissà, magari una Boris ambientata in un teatro di Sicilia, dove Bruschetta possa interpretare il protagonista, in un ideale cortocircuito virtuoso.

“Ecco. Tanto per cambiare. La frase che tutti i politicanti, i finti manager, gli organizzatori improvvisati, i funzionari come Eugenio usano per fare argine alla propria ignoranza. Non potendo pensare a un progetto o a un’idea vera, per programmare un teatro, si appellano ai “nomi” (cioè alle persone famose), alle operazioni di facciata e a un non ben identificato gusto comune, che loro chiamano, appunto “gente”! La gente si vuole divertire. La gente viene a teatro solo se ci sono i grossi nomi. La gente non si vuole annoiare. Dicono così e vorrebbero costringere tutti a sottostare a questa legge di mercato, che non esiste. Il pubblico del teatro è attratto dal teatro. E basta. Enzo, invece, è il tipico parvenu che crede di poter intercettare il gusto delle persone, perché presume che il gusto degli altri sia scadente come il suo.”

Queste righe sono un chiaro esempio della lucidità della visione di Sciascia, quando pronosticava l’avanzamento verso nord della palma. Infatti, questa pretesa di possedere e conoscere il vero gusto del pubblico (anzi della gente) già da quarant’anni l’abbiamo esportata. Ha giustificato le peggiori nefandezze televisive sia del polo lustrini e champagne del Cavaliere, sia del polo pubblico al suo inseguimento.

Eppure risulta così facile smentire questa fandonia, quando un teatro, una tv, un cineasta (ma anche uno scrittore) osa dimenticarsi di questa dittatura del gusto medio e crea prodotti artistici, anche semplici, ma innervati di qualità e di senso, che smuovono le masse che coloro credono addormentate con le cosce anchilosate sul divano.

Come fa Bruschetta con questo libro, in cui non nasconde nulla, in cui schiaffa in faccia a tutti (noi), elementi e tecniche di cui si sostanzia l’imbecillità che aveva riconosciuto Pippo Fava.

“La violenza dei nuovi farisei non è diversa da quella dei vecchi mafiosi. Tutto ciò che, in ogni campo, la burocrazia può fare a un comune cittadino è altrettanto crudele. Una piccola vita può essere distrutta con un banale impedimento, con un documento dolosamente disperso, con un’assenza ingiustificata, con una firma mancante, con la negligenza, con la pigrizia.”

Sempre Pippo Fava (a cui sembra che Bruschetta debba molto in questo libro, e non solo nella declinazione dell’archetipo che dicevamo in Michele Belcore), aveva fatto dire a un avvocato del dramma teatrale La Violenza, poi portato al cinema da Florestano Vancini, che un uomo si può uccidere non solo con la pistola, ma anche negandogli il diritto a un lavoro dignitoso, alla possibilità di dare un futuro dignitoso ai suoi figli.

È proprio quello che Bruschetta ci dice in questo libro quando parla dei nuovi farisei. La violenza in cui si trasforma quella imbecillità ha molte facce e molte forme, e Ninni Bruschetta le racconta tutte in questo libro.

Romanzo che, infatti, si chiama La Scuola del Silenzio, con evidente e voluto richiamo a quella Scuola della Violenza con l’ostinato Sidney Poitier. Sostituite silenzio a violenza e l’effetto è lo stesso. Anzi manteneteli interscambiabili. Finché basti il silenzio, il muro di gomma, il diniego implicito, la complicazione esoterica la violenza si esprimerà così. Quando tutto questo non sarà bastato la violenza assumerà il volto della ferocia, del sangue, dell’indifferenza per l’età, lo stato, o il prestigio della vittima. Bambini, giornalisti, medici, magistrati, poliziotti, cittadini inermi, ma fermi nel loro proposito di difendere legge e dignità, se non si acquietano, se non si adattano, finiscono a terra in un angolo di strada nel sangue, sciolti nei bidoni dell’acido, cementati nei calcestruzzi, dilaniati nelle spettacolari esplosioni che sono tappe della nostra storia.

“Osservo le strade, illuminate dai vecchi lampioni, e per un attimo mi abbandono a questa atmosfera che annuncia, come un muezzin, l’arrivo della sera e del mistero. Ma non mi fotte più questo romantico andirivieni di finzione e di vanità. La mia stupida attrazione ancestrale che mi fa vedere tutto più bello o più importante di quello che è. Rimango fermo, ma sono sempre più determinato ad andarmene. Il fatto è che non sarei dovuto tornare. E invece lo faccio ogni volta, inventando mille scuse. Ma è solo per orgoglio e vanità, per dimostrare qualcosa a tutti quelli che, secondo me, allora mi avevano sottovalutato o umiliato, se continuo a tornare. Per un sottile e miserabile spirito di vendetta.”

Ecco cosa ci frega.

Ecco dove sta lo sfondapiedi che ci fa inciampare. L’amore, la disgraziata lontananza, la nostalgia. È così dannatamente bella la nostra terra, che ci fa dimenticare perché l’abbiamo lasciata.

Vendetta e rivalsa sono le forme esteriori di questo innato e inesauribile amore per la nostra terra che ci porta sempre a credere che questa volta non andrà come le altre. Stavolta anche lei mi amerà.

“Non puoi odiare un disgraziato, è vero. Ma questi disgraziati, i nostri disgraziati, gli sventurati di questa terra di tragedie, hanno fatto una scelta. Proprio come se fossero attori, interpretano un personaggio perdente, sottomesso, disperato. Sono loro a volerlo, e credo che quello sia l’unico modo che conoscono per esistere e comunicare. Accettano di essere sottomessi, schiavizzati e sfruttati perché hanno paura di perdere quel poco che hanno. Ed è per questo che io li disprezzo. Mi dispiace. Perché non hanno niente, anzi, meno di niente. Di che cazzo hanno paura?”

Vi avevo detto che Bruschetta non le manda a dire.

Sì la mafia, si i farisei, si la politica corrotta, si tutto quello che volete. Ma se questo schema archetipico si ripete e rinasce da ogni amputazione come una lucertola, è perché ognuno di noi ha sempre paura di perdere qualcosa, e alla squagliata della cera, ripropone, mantiene, difende il sistema, convinto (illuso) che qualche mollica gli arriverà nel piatto.

È impietoso Ninni Bruschetta.

Ci guarda nelle palle degli occhi e ci dice questo siamo.

Il fariseo Andreotti, che di questa isola, di questo archetipo, è stato protagonista onorario, lo redarguirebbe. Gli intimerebbe che i panni sporchi si lavano in famiglia, come disse ai neorealisti che agivano la stessa operazione che tenta Bruschetta.

Leggetelo questo romanzo. Confrontatevi con la sua schiettezza, con la sua verità indiscutibile e forse capirete che questa Sicilia, così rappresentata, è un luogo comune. Sì un luogo comune.

Il luogo comune a me, a voi e a Bruschetta, a chi resta, a chi parte, a chi torna, il luogo, il tòpos, dove viviamo tutti noi.

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