Dopo alcuni anni di infanzia balconata, a metà degli anni Settanta ci trasferimmo in un condominio con giardino recintato. Una liberazione. Nuovi amici, nuovi giochi, assenza di orari. La libertà.
La mia famiglia si liberò anche di un’altra abitudine. Non andavamo più tutti i sabati e le domeniche al paesello dei nonni. Le giovani famiglie che pian piano riempivano i cinquanta appartamenti delle 4 palazzine tra i prati e i pini, presero l’abitudine di passare insieme i sabati sera. Ognuno portava qualcosa da mangiare, chitarra e canzoni, frizzi e lazzi, ogni sabato in una casa diversa.
Il mio condominio aveva la particolarità di raccogliere abitanti da più parti d’Italia e quindi le serate si arricchivano di tantissimi contributi.
Ricordo con affetto i sabati a casa della signora Emilia, con i suoi tre splendidi figli, una perfetta padrona di casa, l’unica casa del condominio con bellissima scala centrale che portava al piano superiore, e che aveva una cucina con sedili in muratura dove noi piccoli potevamo mangiare tra noi e non disturbare i grandi.
Pizzica un po’ di più questo ricordo affettuoso in questi giorni in cui la signora Emilia ci ha lasciato.
Ai grandi ci riunivamo però per la parte finale della serata, quando cominciavano le canzoni. Con altrettanto affetto ricordo Lucio, il papà di altrettanto splendidi tre figli, uno dei quali oggi è un famoso giornalista radiotelevisivo, (il Matthew McConaughey de noantri). Lucio, romano, prendeva la sua chitarra in braccio e intratteneva tutti per tutta la serata con le canzoni della scuola romana che andava per la maggiore in quei tempi: Luciano Rossi, Franco Simone, Stefano Rosso, ma soprattutto Franco Califano, il capostipite, l’archetipo, il riferimento di quella scuola romana.

Di Califano, i grandi spesso ascoltavano anche le canzoni recitative, oggi diremmo explicit, piene di doppi sensi e di riferimenti sessuali, che noi, seduti per terra tra loro, non coglievamo appieno, ma lo stesso ci univamo rumorosamente alle loro risate. (ad esempio questa: “Beata Te…Te Dormi”).
Sono passati tanti anni e non mi siedo più per terra tra i grandi. Ma anche oggi imparo ad ascoltare musica grazie ai suggerimenti di altri. In particolare mi capita con i miei figli. Attraverso la loro curiosità ho scoperto che esiste ancora una scuola romana di cantautori che a quella stagione si riferisce.
Non credete alla bufala spacciata da Colapesce e Dimartino sulla scuola romana nata da un certo Privitera, catanese in trasferta, con cui hanno sbeffeggiato Max Gazzè e Daniele Silvestri a PropagandaLive. La scuola romana esiste ed è propriamente romana e riconosce come nume tutelare quel Califano di cui cantavano ed ascoltavano i nostri genitori (e noi con loro).
Tra i tanti esponenti di questa scuola mi ha colpito in particolare Franco126, per gli amici Franchino, che dai 126 scalini di Trastevere è partito alla conquista della musica.

Tra tante esibizioni e produzioni tra rap e indie, in collaborazioni spesso numerosissime, o in duo rodato con Carl Brave, due anni fa spiccò il volo il primo album da solo “Stanza Singola”, da cui fu estratta la hit irresistibile “Brioschi” (ma non solo, anche tanti altri brani godibili e di successo, nonché una collaborazione con Tommaso Paradiso).
Due anni dopo, ancora prigionieri della pandemia, Franco126 torna con un altro album solista: “Multisala“.

Un titolo cinematografico, riferito all’edificio proprio, in cui ci spingiamo ai sogni ad occhi aperti, e che vanta la collaborazione con Calcutta nel brano “Blue Jeans“.
Ascoltando l’album ritroviamo la sonorità, le chitarre, di quegli anni ’70 e di quella scuola romana cui abbiamo fatto riferimento. Ritroviamo la voce, sporca, non raffinata, svogliata, quasi buttata via, di Franco che ci racconta le storie romane che ha scelto per questo disco.
La storia di “Che senso ha“, della malinconia struggente di una notte camminante in cerca di un amore perduto
E me ne vado con la giacca sulla spalla
Giro l’angolo e in un attimo è già l’alba
E non è nulla di che
Se non so nulla di te
La storia di “Blue Jeans“, con Calcutta, di un amore incerto, che nasce spontaneo, quasi inconsapevole e di cui non si può prevedere alcun esito.
E non so come son finito qui
È come fossi entrato già a metà del film
Io avevo addosso gli stessi blue jeans
E tu avevi in bocca le stesse bugie
La storia di “Simone“, simpatica e adorabile canaglia, compagno di scorribande, di notti brave e di dialoghi tra il filosofico e l’etilico.
Simone prende la vita come viene
Come fosse un cabaret
Lui che ce n’ha una per tutti
Sono sicuro che ce n’ha una anche per me
E continuiamo come sempre
A riderе di niente
A sciacquarci la bocca con il cabernеt
A chiederci dov’è che va a dormire la luna
E se c’è un Dio lassù che ci spia da una fessura
La notte di “Ladri di Sogni“, quando la solitudine dei nostri passi si popola di ricordi e fantasie
E a quest’ora
Non ci sta un’ombra nei paraggi
A quest’ora
Ladri di sogni sui miei passi
A quest’ora
Soltanto il cielo a cui aggrapparci
A quest’ora
A quest’ora
Quando le nostre gambe ci portano fuori dal cinema della vita a rimasticarne le scene
Al cinema è finito pure l’ultimo dei film
E in sala restano soltanto i titoli di coda
Gli echi delle risate di commedie un po’ così
I brividi di un thriller che t’incolla alla poltrona
Davanti ad un distributore un tale impreca sottovoce
Sarà che il pacchetto non gli scende giù
Ed ho in bocca quel sapore, ma poi guardo in ogni dove
Lo sapevo non potevi essere tu
Gli interrogativi sul futuro che ci aspetta dopo il “Lieto Fine“
Chissà che succede
Dopo un lieto fine
Quando il pubblico in sala si alza e si appresta ad uscire
E restiamo da soli, senza controfigure
Senza più i riflettori
Senza più le battute da dire
Ma tra tutte le storie di questo festival del cinema d’autore quella che mi affascina di più è la bossa nova di “Vestito A Fiori“.
La hit di Stanza Singola “Brioschi” cominciava e finiva con i rumori e i fruscii della puntina sul disco, quasi a voler retrodatare l’emozione, a contestualizzarla in una fase storica specifica. Anche la proiezione in questa sala comincia con i fruscii della puntina, indicandoci in modo subliminale che è la traccia su cui punta Franchino stesso.
Guardi lontano
E intanto il tuo vestito a fiori appassito
Si muove nel vento dei nostri respiri
E non ha un posto per te
Che ancora hai voglia di sbagliare
Di cambiare ogni piano
Hai sogni troppo grandi per i tuoi sorrisi
E non è un mondo per gli eterni indecisi
E non ti piace com’è
Ti sembra tutto da rifare
Un vestito a fiori appassito, sospinto nel vento dai sospiri, per rappresentare il delicatissimo tema della depressione, che ci ricorda da vicino l’ansia e il disagio di questi tempi pandemici
E quante volte hai urlato ai quattro venti
E pianto fino a consumare gli occhi
La solitudine fa brutti scherzi
Il sinuoso ritmo bossa nova, dondolante e irresistibile ci indica però la via d’uscita, ci promette quel lieto fine, che poi ci porrà altri quesiti, ma, intanto, segna la svolta, il temporaneo approdo di fortuna. Anche se oggi non lo vediamo c’è, arriverà, anche se ci troverà scottati, bruciati, ma non inceneriti.
Ma prima o poi
Torneremo ad avere la fortuna dalla nostra
Torneremo a guardarci senza farlo apposta
Ma ora vuoi solo sparire alla svelta
Chiudere gli occhi e non vederti più
In un attimo che brucia in fretta
Come un fiammifеro a testa in giù

Come abbiamo già detto l’album di Franco126 tradisce sin dal titolo il riferimento al cinema, di cinema si nutre, al cinema rimanda. Regalandoci quadri e episodi di storie romane, storie umane, nelle quali ci identifichiamo, che condividiamo, che stimolano la nostra fantasia.
Il disco è una Multisala dove proiettano tanti film e noi possiamo scegliere di volta in volta quale sala occupare, per quale storia sorridere, tremare, emozionarci.
Ma Franco126 ha barato. Se ci soffermiamo su ciascuna delle sale che abbiamo frequentato, dei film che abbiamo visto in ogni canzone, notiamo che si chiami Simone o in altro modo, o non si chiami proprio, in situazioni diverse, con ritmi diversi il protagonista è sempre uno.
Come Celentano con “L’Attore” nel 1968 ci invitava
“Vieni al cinema insieme a me
L’attore – Adriano celentano – Clan 1968
C’è l’attore che piace a te!
Ma chi è?
Ma chi sarà?”
Svelandoci alla fine
“Vieni al cinema e lo saprai,
L’attore – Adriano celentano – Clan 1968
Al tuo fianco lo troverai!
Sai chi é?
Sai chi é?
Sono io!
Sono io!
Sono io!
Sono io! ”
Così l’ascolto di questo nuovo disco “Multisala” ci svela che è sempre Franco che viene dai 126 scalini di Trastevere, il protagonista di queste storie.
E’ lui con la giacca sulla spalla.
E’ lui Simone da cabaret.
E’ lui di notte tra i ladri di sogni.
E’ lui quel vestito a fiori.
E’ lui che si interroga su cosa succederà dopo il lieto fine.
Storie umane che ci ricordano le notti all’aperto, le serate in compagnia, con chitarre e canzoni, che ci ricordano il cinema, l’ultimo spettacolo, che ci ricordano il vino e i drink, l’amore e le sue gioie e i suoi dolori, l’amicizia ed i suoi sogni, la vita… che oggi ci manca, come ci mancano quei sabati sera degli anni Settanta, bambini seduti per terra tra i grandi, e i tanti protagonisti di quelle sere che ci hanno nel tempo lasciato.