Per un paio di estati passammo le nostre serate adolescenti distribuiti tra un muretto ed alcune sedie di una gelateria solo da asporto.
I due signori anziani che gestivano questa rivendita di gelati, confezionati da una notissima gelateria della provincia, ci avevano adottati come fossero i nostri nonni (e lui forse a mio nonno ci assomigliava anche un po’). Ricordo che ci dicevano sempre che non eravamo come gli altri giovinastri che occupavano il resto del sedicente centro commerciale (una distesa di alcune decine di metri con una decina di bassi collegata da un unico portico con muretto – Il Frisio). Forse perché, traguardata la mezzanotte, prima di trasferirci tutti da me, aiutavamo a rimettere a posto sedie, banconi, e cartelloni ed espositori.

In quella postazione stavamo un nucleo fisso di alcuni elementi, attorno al quale gravitavano vari satelliti che apparivano e sparivano secondo traiettorie e meccaniche celesti imprevedibili.
Cazzeggiavamo tantissimo di tutto e senza riverenza. Erano gli anni che ci portavano alla maturità (almeno scolastica) ed affrontavamo con grande serietà argomenti davvero futili, e con grande leggerezza argomenti davvero profondi e fondamentali.
La seconda parte della serata finivamo sempre a cantare, in compagnia, senza base di accompagnamento (neanche una chitarra), riproducendo il più fedelmente possibile, tempi, pause, stacchetti ed intermezzi.

Avevamo dei veri e propri cavalli di battaglia di un repertorio davvero disparato. Andavamo da Reginella, appannaggio del nostro piccolo, biondo e barbuto Gesù de noantri, a Sognando California, con i contrappunti dei Dik Dik da inseguire. Dalla classica Un Giorno Credi, con inevitabile imitazione della tromba e della sua attesa sincope, alla magistrale Poster (rigorosamente New Trolls Style), con i coretti e con le variazioni armoniche sempre più difficili senza musica. Dalla gitarola Azzurro, con l’estate, i leoni ed i baobab, alla suggestiva historia de un amor, e di un naufragio, che era Onda su Onda.
Queste due ultime canzoni, se pur portate al successo da Celentano e da Bruno Lauzi, sono di quel genio laterale e sorprendente che è Paolo Conte.

La musica di Paolo Conte è stata una compagnia fedele della nostra adolescenza. I suoi versi stralunati, le sue promesse esotiche, i suoi echi di jazz, ci affascinavano. Solleticava poi, la nostra vanità, la circostanza che non fosse così noto al grande pubblico (almeno in quegli anni) e ci faceva sentire un po’ talent scout.
Il suggello sulla nostra maturità musicale veniva infine, dall’autorevole avallo che Bruno, il papà artista di Marcello, aveva dato a questa nostra scelta. Gli adolescenti oscillano sempre tra la volontà di rompere gli schemi, ed abbattere i muri eretti dai “grandi” e il segreto malcelato desiderio di riconoscimento da parte degli stessi “grandi” che vogliono detronizzare. La musica di Paolo Conte e la condivisione con il papà di Marcello, era un caso di questi.

Tra Gelati al limone e Mocambo da ricostruire e tinelli marron pieni di avvocati senza scrupoli, la nostra passione per la sua musica cresceva.
E crescevamo anche noi pedalando in salita con gli occhi allegri insieme a Bartali, e sognando di vedere le nuvole in Messico con Jannacci, alla ricerca della faccia triste dell’America.
Poi un giorno all’improvviso, il direttore responsabile di una rivista locale “Sotto il Vulcano”, con la quale collaboravo molto marginalmente, mi disse: “domani a Catania al Metropolitan viene a suonare Paolo Conte, non ho trovato nessuno per intervistarlo, te la senti?”.
Il tempo di ottenere un giorno di ferie dalla banca, con una motivazione lacrimevole e dolorosa e mi misi subito a disposizione.
Arrivammo alle dieci di mattina al Metropolitan, perché ci avevano detto che avrebbe concesso l’intervista di mattina. Insieme ad altri veri giornalisti stavamo lì, Rita ed io, in attesa dell’apparizione.
Si fece sera, il concerto sarebbe cominciato di lì a poco, ma del Maestro non si sapeva nulla. Forse dopo il concerto, l’intervista, ci disse qualcuno dello staff. Il direttore, generosamente, ci fece due biglietti per seguire il concerto ed attendere l’intervista. Ma improvvisamente, mezz’ora prima del concerto ci convocarono in uno slargo dietro il teatro ed apparve l’avvocato di Asti più famoso di Francia. Con la sua sigaretta tra la barba incolta, i suoi occhi vispi, nascosti dietro i sopraccigli cisposi, la sua voce roca ed impastata, da poeta sudamericano.
Ho affrontato tante prove nella mia vita senza cedere all’emozione, esami di maturità, universitari, di laurea, momenti difficili, sanitari e di famiglia, lutti improvvisi. Mai ho ceduto all’emozione, ho perso l’uso della parola, ho avuto abbassamenti di voce. Davanti a Paolo Conte, quando il turno di fare le domande fu mio, le domande preparate con grande cura, selezionando argomenti vari, cercando di essere distintivo, il bianco vuoto brillante nella mia testa. Niente, non mi ricordavo niente, niente di niente. Ho chiesto scusa ed ho saltato il turno…

I grandi artisti sono grandi perché generosi, e più sono grandi più sono generosi. Paolo Conte, finito il giro degli intervistatori, tornò da me con gentilezza e mi chiese: “cosa voleva chiedermi?”. Recuperato il mio animo, gli feci tutte le domande che mi ero preparato e potei consegnare la mia intervista al giornale.

Tornando al muretto estivo della gelateria e a Onda su Onda, quella canzone era per noi ragazzi degli anni ’80, paradigmatica, e la cantavamo con intensa partecipazione, come se ci raccontasse della nostra vita, come se fosse la nostra “Umana” Commedia.
Iniziava con il naufragio, lo smarrimento, il risveglio incerto.
Simulando anche la sirena del boccaporto della ideale nave da crociera (Titanic o Rex che fosse) iniziavamo tra lo sciabordio delle acque a cantare: “Che notte buia che c’è, povero me, povero me”.
Continuavamo con “Che acqua gelida qua, nessuno più mi salverà”.
Tipica condizione adolescente di smarrimento, di spaesamento, di chi lascia il porto sicuro della famiglia, dei giochi, della protezione e si ritrova in mezzo ad un mare buio, gelido, solo per fortuna non tempestoso.
Subito dopo la bugia “Son caduto dalla nave, son caduto, mentre a bordo c’era il ballo”.
E a seguire il presagio della inevitabile sventura:
“Onda su onda
il mare mi porterà
alla deriva
in balia di una sorte bizzarra e cattiva
Onda su Onda
Mi sto allontanando ormai
la nave è una lucciola persa nel blu
Mai più mi salverò”
La certezza di perderci alla deriva però ci risvegliava la memoria, ci svelava il trauma, ci risbatteva in faccia quello che non avevamo voluto ricordare:
“Sara, ti sei accorta?
Tu stai danzando insieme a lui
Con gli occhi chiusi ti stringi a lui
Sara, ma non importa…”
Per un adolescente che aveva scelto Gingolph l’abbandonato come pseudonimo identitario, questa rivelazione è perfettamente coerente. Non eravamo caduti dalla nave, ci eravamo buttati, per l’intollerabile vista del tradimento, della delusione, dell’infrangersi dei sogni sugli scogli.
Passata la notte, sopraggiunta l’alba, la speranza, l’incredibile esito fausto, che riveste di motivazione il gesto codardo della fuga nel mare buio e gelido.
Simulando passetti di danza hawaiana e vibrazioni ritmate di maracas, immaginando una profumata corona di fiori al collo e un coro di Aloha ad accoglierci, reindossavamo il sorriso dei giorni più lieti e ripartivamo a cantare:
“Stupenda l’isola è, il clima è dolce, intorno a me
ci sono palme e bambù,
è un luogo pieno di virtù
Steso al sole ad asciugarmi corpo e viso
guardo in faccia il paradiso”
Non è che non volessimo vedere i vari indizi disseminati di un falso risveglio, di un sogno post mortem, con tanto di virtù e paradiso. Ma la nostra adolescenza non era poi così inquieta da richiedere questo cupio dissolvi, e felici e sorridenti ballavamo e ci illudevamo:
“Onda su Onda
il mare mi ha portato qui
Ritmi, canzoni
Donne di sogno, banane e lamponi
Onda su Onda
Mi sono ambientato ormai
il naufragio mi ha dato la felicità che tu
Non mi sai dar”
Il riapparire della vista sgradita di Sara che chiude gli occhi e si stringe a lui, non ci può più ferire ormai. Davvero non importa.
E continuavamo ad libitum a cantare Onda su Onda, naufraghi, liberi, abbracciati e felici, tra gli applausi degli altri amici e dei “nonni” acquisiti, che si divertivano tanto insieme a noi.
Paolo Conte fa dire al protagonista della canzone Bartali, che vuole restare sul ciglio dello stradone ad aspettare il campione, e non vuole andare al cinema con l’altro amico, stancatosi di aspettare: “Dobbiamo andare al cine? Ma vai al cine vacci tu”.
In quelle estati anche noi non andavamo al cinema, non c’erano arene ed i cinema erano chiusi. Ma anche ci fossero stati i cinema aperti, noi saremmo rimasti lì sul muretto ad aspettare il nostro “campione”, il nostro futuro, la nostra isola con le palme e i bambù, e le donne di sogno, perché no.
Perché il Cinema eravamo noi.

Non è vero che non c’erano le arene. Allora c’erano: a turno l’anfiteatro romano o l’ara di ierone e uno dei passatempi serali era riuscire a vedere i film “di straforo”, saltando la recinzione ed evitando i guardiani.
Oggi purtroppo le arene non ci sono più.
Ciao e complimenti.
Hai ragione, ma per noi che stavamo a Fontane Bianche (e non avevamo automobili a disposizione) le arene erano irraggiungibili…
Bellissimo pezzo. Ti faccio i complimenti!
Sei riuscito a traslare nella tua Siracusa, stati d’animo ed emozioni uniche, originali, vere. Solo Paolo Conte riesce a dipingere, con parole di musica e musica di parole, “quadri d’autore” che bypassano spazio e tempo. Ero lì, con te e i tuoi amici ad aspettare che passasse Bartali, quel naso lungo come una salita e sicuramente ha ragione lui quando dice che… le donne a volte sì sono scontrose o forse han voglia di far la pipì.
Sarà per la mia età un po’ più avanti della tua, ma leggendo il tuo articolo ho avuto netta la visione di fermarmi a dire… due balle ad un tizio seduto su un’auto più in là, un’auto che sa di vernice, di donne e di velocità.