Da qualche anno l’accesso alla musica, alla musica preferita da ascoltare, è sempre più facilitato. La musica è diventata liquida. La troviamo sul web, la ascoltiamo in streaming. Possiamo ascoltare dischi appena pubblicati e musica che abbiamo ascoltato tanti anni fa ed oggi introvabile altrimenti. Anche il vecchio 78 giri, o 33 giri, che nel frattempo è andato in pezzi.
Abbiamo decisamente migliorato la comodità (ed in molti casi anche la qualità) dell’ascolto, con la rivoluzione digitale, e personalmente non tornerei mai indietro. Ma come in ogni innovazione, qualcosa di marginale, di eccentrico, di poco essenziale, abbiamo perso.
Ad esempio. La storia della musica (soprattutto rock) è piena di “analisi” sulla riproduzione con tempo accelerato o rallentato, o all’incontrario, dalle quali emergono messaggi subliminali satanici o simili. Come potremmo fare a scoprire i riferimenti a Belzebù, con il disco ascoltato da Spotify?
Questa riflessione mi ha riportato alla mente un episodio giovanile che credevo dimenticato.
Nel 1978, quale ricompensa di una disavventura sanitaria occorsami, in maniera un po’ rocambolesca entrarono in casa mia un piatto Pioneer PL112d con testina Shure, un amplificatore Pioneer SA 5500, 40 W rms, 20-20.000 hz, e 4 casse acustiche (due in salone e due in camera mia). Un gioiello decisamente immeritato.
Casa mia divenne centro di attrazione, le mie quotazioni risalirono vertiginosamente. La musica divenne uno dei giochi preferiti.
Un pomeriggio decidemmo di fare degli esperimenti con alcuni 45 giri. Tra gli altri scegliemmo una vera perla. Umberto Napolitano, Come ti chiami? Lato b, Hey musino. Sono certo che la ridicolaggine di quel titolo Hey musino, fu tra le principali cause per cui lo scegliemmo.
“Come ti chiami?” era un vero e proprio documento di molestia sessuale (ma allora non lo capivamo ancora). Già nella sua velocità normale offriva numerosi spunti decisamente buffi. Il tono con cui risponde Antonella, la voce melliflua di Paolo. Lo dovete ascoltare.
Per esperimento provammo a riprodurlo a 33 giri. I due protagonisti divennero subito un vecchio molestatore ed un giovane gay inesperto. Alla nostra adolescenza non ancora liberata non parve vero poter irridere con lazzi grevi a sfondo sessuale il povero Umberto Napolitano. Per un certo periodo divenne il lazzo “finedimondo”, da usare per svoltare un pomeriggio o una serata.
Nella nuova avventura di Vincenzo Malinconico, l’avvocato di insuccesso creato da Diego De Silva, I Valori che contano, l’autore dedica un intero capitolo all’analisi di questo brano di Umberto Napolitano con spunti meno grevi dei nostri, ma con uguale ferocia critica. Malinconico si spinge fino a trovare una continuità ideale tra il lato a e il lato b: Come ti chiami? è lo stalking molesto, Hey musino, la consumazione della violenza sessuale.
No. Non è uguale agli altri della saga dell’avvocato Malinconico, questo romanzo appena uscito per Einaudi.
Come ha raccontato lo stesso De Silva in una intervista, la sua personale reale disavventura sanitaria ha provato a scaricarla sulle spalle di Malinconico. Così la vicenda umana e professionale del protagonista dei suoi romanzi si è arricchita dell’esperienza della paura e della malattia, e della riscoperta forzata e non voluta dei valori che contano, appunto.
Questa consapevolezza dolce amara, rende tutte le tinte ironiche di cui riempie i suoi romanzi, più pastose. Colori pieni, non diluiti, che non sarà facile togliersi dalla vista (e dall’anima).
Le famose perle di saggezza di cui Malinconico è inconsapevole autore, acquistano una maggior rotondità, diventano testamento e testimonianza.
Come il manifesto del suo stile genitoriale educativo:
“So che Alf mi vuole bene. Lo so. Lo so perché glielo sento nella voce. Lo so perché lo so. Non sono capace di educarlo, questo è quanto; ma sapete cosa? Non me ne vergogno. Io non voglio educare nessuno. Preferisco prenderlo o lasciarlo.
Non sono un masochista, intendiamoci. Non mi lego a chi mi maltratta, fosse pure mio figlio. Se si comporta da stronzo, voglio che ci arrivi da solo a capirlo. E si corregga da sé, se è abbastanza sensibile da farlo. E sono fiducioso che, se è stato stronzo con me, troverà il modo di dirmi che gli dispiace. E quando lo farà, a modo mio gli risponderò che non fa niente.
Perché non farà niente lo stesso, anche se non mi dirà che gli dispiace.”
Come la scoperta della essenza, semplificata, scarnificata, dell’amore.
“Quando l’amore si semplifica, quando diventa debolezza e timore, di piú: paura di non rivedersi, smarrimento, raggiunge quello stato di purezza in cui non c’è piú nulla che lo nutre. Non il sesso, non il bisogno (comunque lo s’intenda), non l’abitudine (che pure conta, altro che chiacchiere), non il tempo passato insieme e nemmeno i figli, se ce ne sono: no, l’amore in quei momenti è il bene dell’altro che vuoi e senti in pericolo. Quello, e quello solo”
Durante la lettura è inevitabile fare ricorso alla stessa emozione del film di svolta di Nanni Moretti “Caro diario”. Quei tre episodi imperniati sull’ultimo che consentì a Nanni Moretti di riappropriarsi del suo personaggio, lasciando Michele Apicella protagonista del passato. La malattia e i suoi interrogativi attraversarono lo schermo. Nanni e Michele non erano più distinti. La realtà di cannule, medici, terapie, amici, affetti ingombrava la scena. La finzione non bastava più a raccontare le emozioni.
Così Diego e Vincenzo nel racconto hanno perso il distacco che riempivano di arguzia e salace corrosività.
Ma questo non riduce il valore artistico delle storie che raccontano.
Nanni che tambasìa con la Vespa, e Vincenzo che con i punti ancora freschi corre in aiuto del suo cliente, ci catturano, e ci portano dentro questo stretto passaggio tra la vita e la morte.
Un’altra storia di resilienza, che in questi tempi di precario equilibrio postbellico, ci serve, ci sostiene, ci accompagna verso la nuova normalità cui aspiriamo.
Cogliendo la suggestione, ho riascoltato la canzone di Umberto Napolitano, ritrovando intatta, l’atmosfera scherzosa, ed il divertimento degli anni adolescenti. Approfittando delle funzionalità della musica liquida, ho chiesto al servizio streaming di continuare a propormi musica correlata a quella canzone. È stato un flusso ininterrotto di Franco Dani, Alunni del Sole, ancora Umberto Napolitano, Franco Simone ed altri campioni rappresentativi dell’epoca. Per ognuno di essi un ricordo ed un sorriso, qualche volta malinconico, qualche volta nostalgico.
Alla fine I Valori Che Contano, sono spesso pochi ed uguali per tutti (o quasi). Una canzone, un sorriso, l’amicizia sincera, a volte anche inattesa, l’amore di chi ti sta vicino comunque, sempre, nonostante non sia così scontato che lo meriti, la voce dei figli.
Michele Apicella, in Bianca, salendo sul cellulare che lo porterà in prigione per sempre, al commissario riluttante che lo ha incastrato, dice:
“È triste morire senza figli”.
Vincenzo Malinconico si avvia a chiudere questa parte della sua storia, dicendo:
“Alfredo mi ha chiamato poco fa (a proposito, il suo esame, poi, è andato benissimo); Alagia mi telefona sempre prestissimo. La voce dei miei figli mi dà fiducia.”