Come quelle macchinine che usavamo da bambini, che bastava spingerle un po’ indietro e subito partivano velocissime a razzo, finendo anche per volare in sghembe evoluzioni disastrose, così Carmen Consoli in questi anni in cui non ha pubblicato altri album originali, e ha trovato il tempo di confezionare il tappeto sonoro del capolavoro di Paolo Licata dedicato a Rosa Balistreri, ha spinto la sua anima in retrocarica, per rilasciare un album che come un razzo colpisce al cuore ogni ascoltatore, anche il più distratto.

Amuri luci
Dice lei stessa che è la prima gamba di un progetto a tre gambe.
Il progetto della libertà riconquistata a partire dalla lingua.
Una lingua scelta e curata, che riesce nel miracolo di essere letteraria e popolare contemporaneamente.
I versi stanno comodissimi tra ritmi e melodie. Ricchezza di sonorità di grandissimo rilievo.
La ricerca delle radici da cui ripartire nella elaborazione musicale di un suono nuovo si inserisce in un filone preciso che va da La Nina al sabir di Stefano Saletti.
Il siciliano (ma anche il latino e il greco lirico antico) di queste canzoni diventa una lingua unificatrice, una lingua che ha scavato nel dolore, una lingua che porta messaggi di dignità, di libertà e di umanità. Doni che il tempo delle radici può offrire a questi tempi delusi e frustrati.

La prima radice è civile. Una canzone in cui canta e si canta di Giovanni Impastato, fratello di Peppino.
Amuri luci
Giuvanni, jsamula sta vuci
Un blues con tamburi e friscaletti, un lamento di pecuraru, una storia di sangu e chiantu.
Impastato cu lu sangu scurri u chiantu di to’ matri
E tu ricogghi strati strati pezzi di to’ frati
Per risalire un’altra radice, ricorre a uno dei motti ascoltati tante volte, che risuonano di voci assenti da troppo tempo, che temiamo di dimenticare. Voci che ci muovevano al riso già con il tono, con la postura, con la risolutezza del motto: Unni t’ha fattu ‘a ‘stati (ti fai ‘u ’nvernu). Radici conficcate a fondo della nostra anima.

Una invettiva fimmina contro un uomo inutile, come tanti c’è n’è.
Lisciu lisciu comu l’ogghiu T’ava dari versu

Un’altra radice porta la Consoli ai versi di Ibn Hamdis, il poeta arabo e siciliano, esule e disperato, dopo l’invasione normanna. Il poeta che Sciascia ci ha fatto amare quando eravamo ancora poco più che catulliani. Il poeta siciliano e arabo che racchiuse in un distico immortale il dolore del desiderio inappagato e inappagabile:
Vuote le mani, ma pieni gli occhi di lei
La Sicilia dolore e tormento dei siciliani lontani che non possono tornare e restano ccu l’occhi chini e i manu vacanti…
Con una geniale intuizione tutta artistica e femminile, Carmen Consoli affida a Mahmood la partecipazione in questa “cover” musicata dei versi di Hamdis. Nel castone perfetto delle sonorità marine che evocano viaggi e lontananze di questo brano, appare come una perla brillante la voce di Mahmood, che dimentica di essere milanese, e impasta il suo dna egiziano con questi versi siciliani, risultando artefice di una melodia sovrumana e unica, che risuona della lingua dei mari di tutto il mondo. Ur-siciliano, se volete.

Una chitarra da serenata con i fruscii di un vecchio vinile apre il primo omaggio a Buttitta di questo album. D’altronde se vuoi indagare le tue radici in questa isola in menzu di lu mari, mira e desiderio di tanti potenti, non puoi evitare di inciampare in Buttitta.
Uno dei poeti più sonori e ricchi, intensi e veri, che questa terra ha regalato al mondo.
Giovane sedicenne, al fronte, Ignazio Buttitta uccise un soldato tedesco. Come Piero, ma stavolta a soccombere fu la divisa di un altro colore. Un incubo da cui Buttitta non si liberò mai.
Questa canzone è una lettera del militare assassino alla madre “orfana” di quel figlio amato e custodito come fanno tutte le mamme di ogni terra del mondo.
Una preghiera di perdono, una esausta offerta di conforto che non può mai confortare.
A proposito di lingua siciliana, questa preghiera è scritta in una potentissima lingua siciliana, che risuona dentro le note, che rimanda e rilancia mille memorie in chi ascolta. Davvero una miracolosa multiforme lingua: popolare e letteraria, la poesia indimenticabile di Ignazio Buttitta.
Ti vitti chiangiri e priari li santi
A lu capizzu d’o lettu vacanti
Il respiro della canzone è proprio quello di un’aria, una lirica propriamente siciliana, con movimenti larghi della melodia, con gli archi che danno dignità operistica al melodramma dell’assassino pentito e della vittima incolpevole.

Una ballata da commedia all’italiana, un film a colori degli anni Sessanta. Il racconto di un altro uomo inutile, che non tollera che il figlio conti più di lui e, imbelle, lascia la moglie per un’amante che gli preferirà il cane. Una nemesi trascinante. 3 Oru 3 Oru come nella zecchinetta, una truffa, un inganno, un impostore, il ritratto di un quaquaraqua.
Il Franco Fabrizi di mille film, a partire dal Fausto dei Vitelloni.
La voce ferma di una donna che va per la sua strada, che non teme di perdere stu brilloccu di oru.

Non si ferma agli ultimi secoli la ricerca di Carmen Consoli. Introdotto dal latino di Ovidio che ne fu la prima cover, trova la sua veste musicale moderna l’idillio dello scangio, del Polifemo innamorato, Galatea. Un delizioso sirtaki bagnato nel Simeto che muove il piede di chi ascolta.
La dolcezza della lingua lirica greca mi rinfaccia di aver fatto lo scientifico e di non aver saputo colmare la lacuna nei tempi successivi.
L’amore protestato e scambiato. Un filo rosso da Siracusa a Catania lungo quasi due millenni e mezzo.

Parru ccu tia
To’ è la curpa
Ritorna Buttitta tra le corde della chitarra di Carmen Consoli. Il grido alto e severo del Poeta all’uomo ignavo e indifferente. Il grido che anche il Maestro Cardello ha ripetuto tante volte. Il grido che lo scoprì poeta. Il grido che serve ancora oggi (e forse di più) a risvegliare i benaltristi, quelli che girano la testa dall’altra parte (e neppure per interesse). Il grido che migliaia di umani urlano dalle piazze e dalle strade delle nostre città in questi giorni di risveglio a tutti quelli che criticano, giudicano, irridono, sbeffeggiano l’impegno e l’entusiasmo.
Parru ccu tia
To’ è la curpa
Un grido che dal Simeto giunge fino al Po e viene raccolto da Jovanotti con le sue rime aggiunte in coda alla canzone.
Si ricollega al grido di Buttitta la canzone che segue. Una carrellata di haters da chiacchiera, di gente superficiale che ignora o dimentica il peso delle parole e dice le cose comu veni veni.
Parrari senza pinsari
è comu sparari senza pajari

Si riavvicina nel tempo il filo della ricerca colta e profonda. Un duetto medievale con il tenore Sgroi per ridare vita ai contrasti d’amore in volgare della poetessa Nina da Messina, pioniera del poetare volgare, con l’altro Dante fiorentino meno noto dell’Alighieri. Le rime audaci, la lingua nova, lo stile lirico, la risonanza corale e federiciana del notaro Jacopo. Un classico da antologia.
Di tante matrici è fatto l’amore che si canta e si è cantato in questa terra.
L’ultima nenia, Nimici di l’arma mia, è un tentativo riuscito di riportare in vita Rosa Balistreri.
Resta nelle orecchie e nel cuore come il ricordo della ricotta e della cannella di un cannolo appena preparato.

I versi di Graziosa Casella, poetessa del primo novecento catanese, si adagiano sulla musica della chitarra e sui tamburi che Carmen Consoli ha preparato per loro.
I mandolini portano al lamento centrale:
Amuri, Amuri cchiù nun pensi a mia
semu comu du ‘strani addivintati
amuri amuri cchiù nun pensi a mia
li ricordi filici sunnu spini avvilinati
Un friscalettu picuraru chiude e rimanda ai campi della piana, agli aranci, alla zagara, alla straziante meravigliosa bellezza della Sicilia che rende più doloroso ogni dolore, più penosa ogni pena d’amore.

Si rimane frastornati da tante emozioni, i ricordi intimi e personali, anche ancestrali, hanno trovato linfa e nutrimento nella lingua madre (e anche nonna) di queste canzoni, nelle sonorità, nelle melodie, nelle arie che hanno fatto respirare quei versi.
Non ci resta che aspettare le altre due gambe di questo progetto.
Grazie Carmen Consoli che ci consenti di trovare ancora per la nostra via altra musica oriunda.